E la chiamano riforma?

Ieri in Commissione Lavoro alla Camera abbiamo affrontato nuovamente l’argomento della cosiddetta “riforma Gelmini” sull’Università. Un provvedimento che potrebbe essere chiamato in qualunque modo, fuorché riforma. Il parere espresso dal Pd in Commissione è stato totalmente negativo nei confronti delle norme sull’Università. Avevamo presentato delle proposte di modifica al testo, che ieri la maggioranza di centrodestra però ha puntualmente bocciato. Anche io ho tenuto a sottolineare le molte incongruenze che si introducono con questa “riforma” e che si ripercuoteranno su tutto il sistema universitario: sulla didattica, sulla ricerca, sul futuro stesso degli Atenei. Una “riforma” che penalizza i giovani e toglie ogni speranza ai precari, che riforma è?

Entrando nel merito del disegno di legge, in Commissione Lavoro ho espresso un giudizio fortemente negativo sul suo contenuto, dal momento che esso propone di attuare una riforma che non può essere definita tale, essendo caratterizzata da elementi classisti, centralisti, antidemocratici e conservatori.

Col provvedimento in esame si finisce con l’ampliare il potere dei cosiddetti «baroni» e di potenziare il controllo dell’apparato centrale dello Stato, in violazione dell’autonomia delle Università, penalizzando inoltre i territori più svantaggiati del Paese, a fronte di un collegamento tra il mondo dell’Università e quello delle imprese che, se non sostenuto da un adeguato stanziamento di risorse economiche, rischia di mettere in crisi le zone meno produttive del Mezzogiorno. Questo progetto di riorganizzazione del sistema universitario penalizzerà quindi i giovani ricercatori, soprattutto quelli precari, per i quali il provvedimento non sembra prospettare effettivi sbocchi di lavoro.

C’è il rischio che le soluzioni normative presentate sul fronte dei ricercatori a tempo determinato incidano negativamente sullo status di quelli a tempo indeterminato, per i quali sarebbe necessario, al contrario, prevedere l’accantonamento di risorse certe, in vista di un futuro inquadramento nel campo della didattica. E a poco servono le rassicurazioni dell’Esecutivo, che ha annunciato delle modifiche soltanto in via informale.

Speravamo che la maggioranza potesse recepire le proposte di modifica del gruppo Pd. Proposte con cui si intendeva incrementare lo stanziamento di fondi in vista di un pieno riconoscimento del diritto allo studio, di favorire un ricambio generazionale tra i docenti universitari e di abolire le numerose fattispecie contrattuali precarie mediante l’introduzione di un contratto unico di formazione della durata massima di quattro anni.

Le richieste del Pd, in particolare, erano tese a valorizzare il giusto lavoro prestato nel campo della ricerca e del sapere, ad esempio anche riconoscendo adeguati corrispettivi ai titolari di contratti d’insegnamento. Il gruppo del Pd si è battuto da tempo per una generale estensione dell’ambito di applicazione degli ammortizzatori sociali in favore dei precari che operano nel campo dell’università e dell’istruzione: per «liberarli dall’insicurezza», in linea con quanto recentemente declamato – solo a parole – dal Ministro Sacconi.

L’Italia ha il dovere di investire sul suo futuro, stanziando ingenti risorse in un settore strategico come quello dell’istruzione e invertendo quella politica dei tagli messa in campo da tempo dal Governo e confermata anche da questo provvedimento. Solo seguendo questa strada, a mio avviso, sarà possibile rimanere al passo con gli altri Paesi europei.

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