IL LAVORO DEI GIOVANI: STABILMENTE INSTABILE?

Ecco cosa ha fatto – e cosa pensa di fare – il Pd contro la precarietà e per il lavoro di qualità dei giovani.

Lo abbiamo detto più volte in tutti questi anni: far ripartire l’Italia vuol dire puntare sulle sue giovani generazioni. E puntare su di loro vuol dire dirimere un delle questioni più rilevanti con cui dobbiamo confrontarci. E’ il lavoro precario, sottopagato, senza tutele.

E’ il lavoro dei giovani d’oggi. Anche di quelli che apparterrebbero alla categoria dei “professionisti”.

Sono giovani che rischiano di diventare vecchi e senza pensione. Con il gruppo del Pd alla Camera e in particolare con la Commissione Lavoro della Camera, di cui faccio parte, abbiamo scritto nero su bianco come pensiamo di cambiare le cose. Non è solo un’analisi della situazione, ché dati e statistiche sappiamo cosa dicono. E’ la sintesi di come deve essere per noi il lavoro. E di cosa abbiamo fatto, in Aula, per tentare di apportare miglioramenti necessari per il futuro del nostro Paese.  

LE PROPOSTE DEL GRUPPO PARLAMENTARE DEL PARTITO DEMOCRATICO CONTRO LA PRECARIETA’ E PER IL LAVORO DI QUALITA’ DEI GIOVANI

A cura della Commissione Lavoro e dell’Ufficio Legislativo della Camera dei Deputati del Partito Democratico

Si usava ripetere, una volta (nemmeno troppo tempo fa), che investire sui giovani significava investire sul futuro. Si usava ricordare anche – ricorrendo a una massima di Antoine de Saint-Exupery – che noi non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai nostri padri, ma l’abbiamo solo presa in prestito dai nostri figli: un impegno di responsabilità.  Una volta, però. Perché adesso non sembra più essere così. Il futuro e i giovani sono spariti dal dibattito politico e dall’agenda di governo. Quando rientrano, rientrano solo alla voce “tagli”. Tagli alla scuola pubblica, tagli all’università, tagli alle pensioni, tagli agli interventi di sostegno, tagli alle retribuzioni, tagli ai diritti.

Guardiamo i fatti. Oggi il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 30 per cento. A ciascun giovane, neonati compresi, lo Stato offre in dote un debito di 30.800 euro (risultato anche di sciagurate politiche dei decenni passati). Tradotto in pratica significa, in generale, minori capacità di investimento e, quindi, di sviluppo e di opportunità. Ma è soprattutto sul piano dell’istruzione, della formazione, del lavoro e delle prospettive previdenziali – cioè gli ambiti che accompagnano l’arco dell’intera esistenza – che la destra ha messo in campo scelte penalizzanti per le nuove generazioni. Spesso, addirittura, mortificanti e comunque sempre fuorvianti rispetto alle necessità di una società coesa, capace di guardare al futuro e tesa allo sviluppo economico e sociale. Ciò che è cresciuto, in questo avvio di millennio, sono solo l’incertezza e la precarietà.

Un esercito di precari

Guardiamo il lavoro. I dati sono noti, ma vanno ricordati. Oggi, oltre 7 milioni di giovani hanno un rapporto di lavoro precario o altamente incerto. I conti sono semplici: un milione e 400mila lavoratori atipici, tra collaboratori a progetto dei settori privati, collaboratori coordinati e continuativi della pubblica amministrazione, associati in partecipazione, collaboratori occasionali e lavoratori che cedono i diritti d’autore nei settori dell’informazione e dello spettacolo; due milioni e mezzo di contratti di lavoro a tempo determinato e in somministrazione (quelli che fino a non molto tempo fa si chiamavano interinali); 400mila false partite Iva; tre milioni di partite Iva individuali e professionisti senza tutele. A loro, in questa fase, si devono poi aggiungere 70mila giovani vincitori di concorso (o idonei) che attendono di essere assunti nella Pubblica amministrazione. In totale 7 milioni e 370mila persone. Una massa imponente. Ancor più rilevante se messa in relazione col numero complessivo – circa 22 milioni – dei lavoratori italiani.    

Eppure questa fotografia non dice ancora tutto. Perché se la disoccupazione giovanile, secondo le più recenti  rilevazioni dell’Istat, si mantiene poco sotto il 30 per cento, i rapporti di lavoro a tempo indeterminato continuano a diminuire e i contratti a termine aumentano.

Anche in questo caso è bene lasciar parlare i numeri. Nel biennio 2009-2010 – l’ultimo per il quale sono disponibili dati consolidati – oltre il 76 per cento delle assunzioni è stata fatta a tempo determinato, mentre i contratti di lavoro standard sono stati solo il 20,8 per cento del totale. Tradotto, significa che su quattro lavoratori neoassunti tre sono precari. L’esercito giorno dopo giorno si ingrossa.

La situazione colpisce soprattutto i giovani. Chi è disoccupato non trova lavoro. Chi lo trova, quasi sempre lo trova precario, senza prospettive, con basso salario, pochi o zero diritti e incerto futuro.

Investire sui giovani, si diceva, significa investire sul futuro. Invece quella che si sta costruendo è una società precaria, che cancella il futuro e vive abbarbicata a un difficile presente. Una scelta egoista e senza fantasia.

La prospettiva è drammatica. Non solo per i diretti interessati, ma per l’intero paese. In base al principio del laissez-faire il Governo se ne lava le mani e finge di credere ancora alle capacità di autoregolamentazione del mercato.

Anche in questo caso è bene ci si attenga ai fatti (e ai “non fatti”). Per anni, quando non è intervenuto per apportare peggioramenti al mercato del lavoro, il Governo di centrodestra è stato totalmente assente. Nessuna politica per l’occupazione. Nessun provvedimento di sostegno. Nessuna prospettiva di stabilizzazione. Ha provveduto invece, con il “Collegato Lavoro”, a ridurre i diritti e le tutele. La reintroduzione dello staff leasing e del lavoro a chiamata, quintessenza della precarietà a suo tempo cancellati dal centrosinistra, ne sono l’emblema. Ed è intervenuto con drastici tagli nella scuola e nella pubblica amministrazione, che hanno penalizzato – e stanno penalizzando – centinaia di migliaia di lavoratori precari, anche in questo caso in larga misura giovani.

Siamo di fronte a una ricerca quasi maniacale di flessibilità – accompagnata da una pervicace volontà di colpire, alimentando artificiose divisioni, il sindacalismo confederale – che non ha portato alcun beneficio né all’occupazione né alla competitività del paese, ma ha solo prodotto conseguenze negative sul piano sociale. Guardiamo sempre i fatti. Nonostante la deregulation  il tasso di occupazione, in Italia, è al 56,7 per cento, uno dei più bassi d’Europa. I disoccupati sono due milioni e 145mila, mentre la disoccupazione giovanile è al 29,4 per cento. Un dato, quest’ultimo, ancora più grave e per certi versi paradossale, se pensiamo che i giovani nel nostro paese sono in continua diminuzione – il Censis ci dice che negli ultimi dieci anni abbiamo perso due milioni di cittadini tra i 15 e i 34 anni – e sono una merce sempre più rara sul mercato del lavoro.  

Anche sul fronte dell’occupabilità – concetto a parole tanto caro alla destra – sono stati assunti provvedimenti raffazzonati e controproducenti. Le scelte sulla formazione scolastica, la “riforma” dell’università, la ristrutturazione dell’istruzione professionale ne sono la dimostrazione lampante. Il nostro resta uno dei sistemi formativi peggiori d’Europa.  E a pagare, anche in questo caso, sono le giovani generazioni.

Correre ai ripari, battere la precarietà

I guasti sono enormi. Correre ai ripari, però, è possibile. Ed è doveroso. Il secondo governo Prodi, pur nella sua breve e travagliata esistenza, ha lasciato in questo campo un’eredità preziosa. Che va ripresa e valorizzata. Il lavoro, avviato tra il 2006 e il 2007 ha subito una brusca interruzione con il dissolvimento dell’Unione. Diversi provvedimenti assunti in quel periodo sono stanti cancellati dal centrodestra, altri sono finiti nel dimenticatoio. Ma quella è la strada da riprendere e il centrosinistra deve riaffermare la volontà di muoversi nel solco tracciato.

Il protocollo sul Welfare del luglio 2007 puntava alla definizione di un sistema di interventi e di tutele finalizzato a una politica di sviluppo in grado di offrire ai giovani una prospettiva di buona occupazione e, attraverso l’adozione di misure solidaristiche a favore delle carriere discontinue, di garantire al termine della vita lavorativa pensioni adeguate. L’obiettivo oggi, anche a causa delle scelte operate dalla destra, è più attuale che mai. Per questo credo sia utile riportare all’attenzione i principali provvedimenti allora delineati.

Il centrosinistra ha anzitutto previsto, nell’ambito di una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali (mai portata a compimento nonostante le iniziali promesse del ministro del Lavoro, Sacconi), misure a sostegno del reddito dei lavoratori con contratti flessibili. Obiettivo, sostenere il reddito nei periodi trascorsi alla ricerca di un impiego tra un contratto e l’altro. A questo scopo erano stati, tra l’altro, creati dei fondi  a rotazione- con uno stanziamento di 150 milioni per il triennio 2008-2010 – finalizzati a consentire l’accesso al credito dei parasubordinati rimasti senza occupazione. Una sorta di anticipazione sui futuri redditi. Mentre fondi di microcredito erano stati istituiti per incentivare le attività innovative dei giovani e delle donne e altri fondi erano stati previsti per favorire i finanziamenti finalizzati all’apertura di attività autonome da parte di giovani lavoratori.

Non solo. Sul fronte del mercato del lavoro e delle politiche per l’occupazione, il centrosinistra si è mosso lungo la strada della stabilizzazione dei rapporti di lavoro puntando a ridurre al massimo l’area della precarietà. Accanto alla già ricordata cancellazione del lavoro a chiamata e dello staff leasing, poi puntualmente reintrodotti dal governo Berlusconi, un’attenzione particolare era stata prestata alla regolarizzazione – anche grazie alla introduzione di incentivi – degli addetti ai call center. Il risultato, per alcune decine di migliaia di giovani lavoratori, è stato il passaggio da un contratto di collaborazione, precario, a un rapporto di lavoro stabile. Lo stesso è avvenuto nella pubblica amministrazione, dove si è proceduto alla stabilizzazione di migliaia di insegnanti e impiegati assunti con contratti a tempo determinato.

Ma non ci si è fermati qui. Con l’introduzione del credito d’imposta e la riduzione del cuneo fiscale il Governo Prodi ha anche introdotto uno “sconto” sul costo del lavoro ( 3 punti percentuale, valore annuo di circa 5 miliardi di euro, purché fosse lavoro a tempo indeterminato. Anche questo provvedimento aveva cominciato a dare i suoi frutti, con la stabilizzazione presso le aziende private di rapporti di lavoro in precedenza precari. Poi il centrodestra non ne ha fatto più nulla. Si è tornati a parlarne di recente, nel cosiddetto “piano per lo sviluppo” (a costo zero) presentato a fine aprile dal ministro Tremonti. Ma le reali intenzioni del governo e gli ambiti di applicazione sono tutti da verificare.

La questione sta qui. Dalla primavera del 2008 a oggi il governo ha lavorato per smantellare pezzo dopo pezzo quanto fatto dal centrosinistra a sostegno e a tutela del lavoro. A cominciare da quello giovanile. Questa deriva va contrastata, la buona occupazione va sostenuta. Per questo il Partito Democratico ha presentato diverse proposte di legge con l’obiettivo di portarle a compimento.

Mentre scriviamo, l’ultima in ordine di tempo è quella relativa alla riforma degli stage e del praticantato per l’accesso alle professioni, istituti che interessano, ogni anno, circa 300mila giovani. Per le aziende, complice la crisi, i tirocini formativi sono diventati, in moltissimi casi un’occasione per utilizzare manodopera a costo zero. Gli stage, in questo modo, hanno perso la loro caratteristica principale, quella di essere per migliaia di giovani strumento pratico di formazione a stretto contatto con il mondo del lavoro. Una pratica intollerabile che va fermata. Il Parlamento deve intervenire al fine di rendere certa la normativa sui tirocini, deve inserire tutele precise per gli stagisti e deve impedire gli abusi. Questo è il nostro obiettivo.

Oltre a scendere ancora una volta in campo per ottenere la cancellazione dello staff leasing e la limitazione (attraverso una puntuale regolamentazione legata a specifici settori) del lavoro a chiamata, per favorire la conversione dei contratti di collaborazione in rapporti di lavoro subordinati e proseguire nell’azione di contrasto alla precarietà, abbiamo anche presentato una proposta di legge che prevede in primo luogo la prosecuzione del sistema di incentivazione contributiva per le imprese che hanno aderito ai programmi di stabilizzazione del proprio personale, come è avvenuto nel caso dei call center.

Gli incentivi, però, da soli non bastano. Da affrontare – e risolvere – c’è la madre di tutte le questioni. Per frenare l’espansione delle forme di lavoro atipiche, sin qui invece favorite da Berlusconi e dai suoi ministri, servono norme che prevedano che il lavoratore assunto con contratti di lavoro precari costi all’impresa più del lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato. Altrove, in Europa, è così. Da noi è esattamente il contrario. Finché non cambierà il quadro normativo, non è pensabile che possa cambiare in modo radicale l’atteggiamento degli imprenditori.  

Anche sul piano dell’occupabilità, e quindi della formazione, il Pd chiede chiarezza di obiettivi e interventi conseguenti. L’inerzia e, insieme, la confusione mostrate sin qui dal centrodestra sono stupefacenti. E deleterie. Nella società della conoscenza è fondamentale il diritto di accedere alle opportunità di formazione nel corso di tutta la vita lavorativa. Ed è vitale offrire ai giovani le competenze necessarie per entrare nel mondo del lavoro. Cosa che oggi non avviene.    

C’è infine un fronte, finora completamente trascurato dal Governo, che va riaperto. Quello che punta alla tutela e alla promozione del lavoro autonomo. Imprenditori e lavoratori in proprio, liberi professionisti, coadiuvanti e soci di cooperative, collaboratori e lavoratori occasionali chiedono che venga individuato un patrimonio comune di tutele e di incentivi. Con l’obiettivo di valorizzare il fattore lavoro rispetto al capitale. In questo senso determinanti risultano l’accesso e la tutela del credito, la semplificazione delle procedure, la riconoscibilità pubblica delle professionalità, la certezza dei termini di pagamento, l’aiuto a sviluppare forme di previdenza e assistenza integrative (anche in forme mutualistiche) e il sostegno alla formazione permanente.

Tutto ciò mentre si devono trovare nuove strade per il sostegno delle iniziative imprenditoriali di quei lavoratori più esposti ai rischi della disoccupazione o della inoccupazione. Appunto i giovani e le donne. Anche su questo tema il Pd ha presentato una  proposta di legge che vuole essere una risposta alle aspirazioni dei tanti che non si rassegnano a una prospettiva di disoccupazione e marginalità e si vogliono invece impegnare, scommettendo sulle proprie capacità, sulla propria professionalità e sulla propria inventiva, per affrontare le complessità e le prospettive di un’attività economica o professionale.

Lo ripeto. Senza un’inversione di rotta nella politica economica del governo sarà impossibile uscire dalla crisi. Tanto meno sarà possibile pensare a nuove prospettive di sviluppo. I dati relativi alla crescita parlano, ancora una volta, di un’Italia in affanno: in Europa siamo penultimi. Mentre sul piano sociale le diseguaglianze aumentano. Se si continua così, soprattutto per i giovani, sarà notte fonda. Per la prima volta nella storia del nostro paese le nuove generazioni hanno come prospettiva quella di vivere peggio rispetto alla generazione dei loro padri. E’ una prospettiva che non può essere accettata. Non si può restare a guardare.  

Un futuro di pensionati poveri

La flessibilità insicura, senza regole e senza prospettive ha prodotto pesanti conseguenze sulle persone e sulle famiglie. Le conseguenze sono ogni giorno sotto gli occhi di tutti. Ma se il presente è grigio il futuro rischia di essere nero. La prospettiva, nei prossimi decenni, è quella di avere una generazione di pensionati poveri. Senza interventi decisi da parte dell’attuale governo e dei governi futuri, gli oltre quattro milioni di persone, per la maggior parte giovani, che oggi prestano la propria opera con contratti di lavoro parasubordinato, al momento del pensionamento non potranno avere una rendita sufficiente per vivere.

E’ stato lo stesso presidente dell’Inps, non molto tempo fa, a lanciare l’allarme. “Se dicessimo ai precari quanto prenderanno di pensione, rischieremmo un sommovimento” – ha dichiarato. E in effetti le stime sono drammatiche. A conti fatti le rendite maturate dai precari al momento del pensionamento non saranno di molto superiori agli attuali assegni sociali. Nel migliore dei casi. La ragione è semplice. E va ricercata, oltre che nella ridotta aliquota contributiva – sebbene negli ultimi anni sia stata aumentata, per la previdenza gli “atipici” pagano tuttora il sette per cento in meno rispetto ai loro colleghi a tempo indeterminato -, nella bassa remunerazione annuale percepita a causa, soprattutto, della discontinuità della prestazione lavorativa.  

A parità di reddito, infatti, nemmeno un aumento dell’aliquota contributiva al livello dei lavoratori dipendenti, per quanto necessario, sarebbe risolutivo. Un recente studio pubblicato dagli economisti de Lavoce.info rivela che la retribuzione media annuale (lorda) di un uomo con contratti di lavoro parasubordinato, nato nel 1976, era, nel 2001 all’età di 25 anni, di circa 8mila euro e arriverà a 15.770 euro a fine carriera, cioè a 65 anni, nel 2041. Le cose vanno ancora peggio per le donne il cui reddito, in condizioni simili, è destinato a passare da circa 6.300 euro a 8.470 euro annui lordi.

Come si vede, anche a parità di mansioni, si tratta di retribuzioni assai più basse rispetto a quelle percepite dai lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato. Normalmente, infatti, i parasubordinati nell’arco dell’anno lavorano in media soltanto sei mesi. Stando sempre alle stime riportate da Lavoce.info, solo il 20 per cento versa contributi per undici o dodici mesi all’anno. Una condizione di svantaggio tanto pesante che nemmeno la trasformazione nel corso della carriera di questo genere di contratti in un rapporto di lavoro dipendente riesce a colmare il divario accumulato.

Così, restando ai due esempi riportati, la pensione – dopo 40 anni di contributi – sarà nel primo caso di 9.712 euro lordi l’anno, cioè 747 euro lordi mensili per tredici mensilità. Nel secondo, di 6.080 euro annui, cioè circa 470 euro mensili. Una rendita assolutamente insufficiente per far fronte alle necessità vitali. Uno scandalo. Anche se va ricordato che si tratta di esempi che non sono in grado di tenere conto dell’evoluzione della carriera lavorativa, delle singole persone, in senso negativo o positivo.

Le cose, tuttavia, non vanno molto bene nemmeno per coloro che sono titolari di un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Il ministro Tremonti si vanta di aver fatto, per la prima volta in Italia, una riforma delle pensioni per decreto, senza nemmeno convocare imprenditori e sindacati. E senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Non c’è di che vantarsi, ma è vero. Agendo senza clamori, il Governo Berlusconi in questi anni ha lanciato una sfida mortale alle aspettative di tutti i lavoratori. Dipendenti e non. In base alle norme attualmente in vigore, se non ci saranno correzioni, a partire dal 2015 il momento del pensionamento verrà adeguato all’andamento delle aspettative di vita determinato dalle statistiche. In altri termini, si passerà da un sistema in cui si sapeva con esattezza quando si sarebbe andati in pensione e quanto si sarebbe percepito di rendita, a un sistema in cui non sarà possibile sapere né quando ci si potrà ritirare dal lavoro né a quanto ammonterà l’assegno.

Con il passaggio al sistema contributivo integrale e con il ricalcolo triennale dei coefficienti di trasformazione, che lega il risultato pensionistico all’andamento del prodotto interno lordo, sarà infatti possibile conoscere l’entità dell’assegno solo al momento dell’effettivo pensionamento. La sola certezza è che, nella quasi totalità dei casi, sarà comunque inferiore – e di molto – rispetto a quello calcolato sulla media delle retribuzioni degli ultimi dieci anni della vita lavorativa, come avveniva nel recente passato. E’ per questo motivo che, con l’accordo sul Welfare sottoscritto dal Governo Prodi con le parti sociali nel luglio 2007, si erano poste le basi affinché i neoassunti, una volta raggiunta l’età stabilita, potessero contare su una rendita pari al 60 per cento della retribuzione. L’obiettivo, se non cambieranno le politiche, rischia di restare però un miraggio.  

La prospettiva, insomma, è  quella di avere in futuro intere generazioni di anziani indigenti. Non si tratta però di un destino ineluttabile. Anche in questo campo, come in quello del lavoro, qualcosa sì può e si deve fare. Anzitutto serve immaginare, con un ampio respiro strategico, un nuovo assetto nel rapporto tra giovani e anziani. Non solo in campo previdenziale. Dopo le rotture intervenute sul modello sociale e su quello produttivo con l’affermarsi della globalizzazione, sono necessari nuovi equilibri. Ma già si possono mettere in campo correttivi parziali efficaci in grado di migliorare, in prospettiva, la situazione dei futuri pensionati. Basta che ci sia la volontà politica di cercare soluzioni praticabili, senza calpestare i diritti di nessuno.

E’ sbagliato e strumentale cercare di costruire contrapposizioni tra vecchie e giovani generazioni come qualcuno è periodicamente tentato di fare. E’ innegabile che la generazione del Sessantotto, quella che oggi si avvia alla pensione, abbia conquistato – a prezzo di lotte e di sacrifici durissimi – molti diritti nel campo del lavoro e che abbia goduto i  frutti di queste conquiste. Così come è innegabile che le rotture verificatesi nel modello produttivo e sui mercati a partire dagli anni Ottanta abbiano indebolito queste stesse conquiste per le nuove generazioni. Il grande problema che la politica adesso deve affrontare è quello di cercare di stabilire un nuovo equilibrio senza creare contrapposizioni. Il governo Prodi aveva imboccato questa strada e, per la prima volta, aveva investito risorse importanti per dare risposte concrete ai problemi delle nuove leve di lavoratori. Con la destra al governo, e con la sua concezione della politica economica, è tutto più difficile. Ma si deve provare.

Il primo passo, quello più ovvio, può essere compiuto mettendo in campo provvedimenti e risorse in grado di favorire la trasformazione del lavoro precario in lavoro stabile. A sostenerlo non è solo il centrosinistra. Anche il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, l’ha ripetutamente auspicato nei suoi interventi. A questo si deve accompagnare, naturalmente, la lotta al lavoro nero, che va trasformato in lavoro regolare. E, come ho già sottolineato, l’equiparazione a livello contributivo del lavoro parasubordinato a quello subordinato.

Il centrosinistra si era mosso con decisione lungo questa strada. Aveva elevato dal 18 al 23 e poi al 26 per cento della retribuzione i contributi previdenziali. E aveva raggiunto risultati apprezzabili sul piano della stabilizzazione del lavoro precario  in diversi settori – a cominciare dai call center – grazie a un sistema di norme e di incentivi.

Come abbiamo già sottolineato, invece, il Governo Berlusconi, con il suo “Collegato lavoro” diventato legge nell’autunno del 2010, ha di fatto ribaltato quell’impostazione facendo diventare i rapporti precari il normale strumento di accesso al mondo del lavoro. Con tutte le relative conseguenze. Se si vuole, in prospettiva, poter contare su pensioni decenti c’è una sola strada: tornare a invertire la rotta.

Un impiego sicuro però, come abbiamo visto, non basta per migliorare in modo sostanziale il futuro previdenziale di chi si è da poco affacciato (o si sta affacciando ora) al mondo del lavoro. In un’epoca in cui il posto fisso a vita, che era condizione normale per i nostri padri, è diventato – fatta eccezione per la pubblica amministrazione – solo un ricordo e si è venuto affermando un mercato del lavoro duale, basato sulla disuguaglianza dei diritti e su salari che non riflettono più l’andamento della domanda, servono strumenti incisivi e mirati.

Che fare?

Nel protocollo sul Welfare del 2007, fra le altre cose, fu deciso il riscatto vantaggioso della laurea. Questo consente ai giovani che entrano nel mondo del lavoro di migliorare il montante contributivo e di abbreviare gli anni necessari per andare in pensione. E, nel caso di chi è in attesa di occupazione, di detrarre il 19 per cento dell’importo del riscatto dalla denuncia dei redditi dei genitori. Si tratta di uno strumento formidabile per incrementare il capitale di base su cui verrà calcolata la rendita futura e per ridurre di tre, cinque o più anni, la durata della vita lavorativa. Ma, specie in tempi di pesante crisi economica e occupazionale, in cui trovare un impiego adeguato è impresa difficile e in cui le famiglie devono spesso fungere da ammortizzatore sociale per i figli già adulti, non è una strada sempre facilmente percorribile.

Versare all’Inps un contributo, definito dalla legge, per ogni anno da riscattare, pur con un pagamento dilazionato senza interessi fino a dieci anni, può essere per molti assai oneroso. Perché questa opportunità possa avere una diffusione di massa serve intervenire, con decisione e con ulteriori incentivi.  

Un secondo strumento fondamentale per adeguare le rendite pensionistiche del futuro alle necessità della vita  è poi l’effettiva totalizzazione dei contributi, accompagnata dall’estensione dei cosiddetti contributi figurativi. E’ uno strumento che riguarda tutti, indipendentemente dal titolo di studio conseguito, e, con il sempre più frequente ricorso a rapporti di lavoro discontinui instaurati in ambiti diversi (lavoro autonomo, lavoro subordinato, lavoro parasubordinato), è destinato ad assumere una rilevanza sempre maggiore. In quest’ottica, l’utilizzo al fine della determinazione della pensione di quanto effettivamente versato dal lavoratore presso le diverse casse previdenziali nell’intero arco della vita lavorativa è essenziale per evitare che, nel caso non siano stati raggiunti i requisiti minimi per la maturazione della pensione presso una cassa, parte della contribuzione vada perduta. Il centrosinistra ha ridotto da sei a tre anni il periodo minimo necessario per la totalizzazione. E’ stato un passo importante, ma non basta. L’obiettivo è far sì che non un solo centesimo di quanto versato dai giovani lavoratori vada perduto. Tutto ciò che è stato accantonato presso le diverse casse previdenziali deve poter essere cumulato al fine di godere, al momento del ritiro dall’attività, di una rendita adeguata. Il che significa togliere ogni franchigia.  

In questo ambito un ruolo importante spetta alla contribuzione figurativa. Come già avviene per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato in caso di disoccupazione o cassa integrazione, anche il lavoratore precario deve essere accompagnato dal versamento di contributi figurativi commisurati alla retribuzione percepita, oltre che nel caso di malattia o di maternità, nei periodi di passaggio da un posto di lavoro all’altro.       

Un capitolo a parte merita poi la questione della previdenza integrativa. Il suo rafforzamento, accanto alla pensione pubblica, è essenziale per migliorare in modo sensibile la situazione economica di quanti hanno fatto da pochi anni il loro ingresso nel mondo del lavoro. L’ammontare delle rendite future dipenderà anche dal risparmio derivante dalla previdenza privata. Va poi considerato che il vantaggio derivante dalla partecipazione alla previdenza complementare è costituito, accanto al rendimento conseguito dal fondo pensione, da un insieme di fattori aggiuntivi. E’ previsto infatti, per chi vi aderisce, un vantaggio fiscale legato proprio a tale partecipazione cui va ad aggiungersi il contributo versato per legge dal datore di lavoro.

 Il ministero del Lavoro, nel 2007, promosse una campagna di adesione di massa alla previdenza complementare. Il risultato fu ragguardevole. In pochi mesi venne raggiunto il milione di nuovi iscritti. Questa strada, però, è stata completamente abbandonata dall’attuale governo. Berlusconi, Sacconi, Tremonti non hanno avviato alcuna iniziativa per incentivare l’adesione ai fondi complementari soprattutto da parte dei neoassunti. Pur all’opposizione, invece, il Pd ha presentato una propria proposta di legge finalizzata a trovare soluzioni che assicurino maggiori garanzie per coloro che scelgono di far ricorso ai fondi pensione evitando sovraesposizioni di rischio, legate alle oscillazioni dei mercati, soprattutto nella fase di accumulo. L’obiettivo è quello di ridurre i rischi e, di conseguenza, favorire il ricorso a quello che è “il secondo pilastro” del nostro sistema previdenziale.

Se non si batteranno, e da subito, le strade indicate, la conseguenze sul piano economico e sociale saranno pesanti. Per i giovani di oggi e per l’intero paese.

Cesare Damiano

Roma, 24 maggio 2011