L’aeroporto di Comiso intitolato a Pio La Torre

latorre1Questa mattina a Comiso ho assistito alla cerimonia per l’intitolazione dell’aeroporto di Comiso a Pio La Torre. Cerimonia molto partecipata, a dimostrare che la re-intitolazione era molto voluta dai siciliani in segno di rispetto e gratitudine per un uomo che ha dato la vita per lottare contro la mafia e per fare del Mediterraneo un luogo di pace e cooperazione.

Riporto qui di seguito l’intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha voluto testimoniare così la volontà di continuare con sempre più vigore quella lotta politica e sociale che ci deve vedere impegnati ogni giorno, e senza la quale non si può parlare di sviluppo.

Ma voglio anche ricordare chi è stato Pio La Torre, e per questo motivo subito dopo l’intervento riporto una sua breve biografia. Buona lettura.

“Intitolazione Aeroporto di Comiso a Pio La Torre” Comiso, 7 Giugno 2014

Intervento del Ministro

“Vorrei innanzitutto ringraziare l’Amministrazione comunale di Comiso per averci riuniti in questa giornata. Il nome di Pio La Torre era già indissolubilmente legato a questa città, e non solo nel ricordo di molti di noi, ma nella coscienza nazionale. E tuttavia, per Comiso, agli occhi dell’Italia intera, era un dovere non adempiuto quello di scolpirlo sulla pietra, nella terra segnata dalla sua ultima battaglia. Intitolare – o meglio: reintitolare – l’Aeroporto di Comiso a Pio La Torre è perciò un atto di orgoglio: e non tanto perché cancella piccole miserie che hanno accompagnato questa vicenda, ma perché è il modo di onorare un impegno, di compiere un dovere repubblicano. Per questo oggi non è una giornata importante solo per questa città, ma lo è per tutta la Sicilia, a cui La Torre dedicò l’impegno di una vita – la vita.Lo è per tutto il Paese, che tanto deve all’uomo e al dirigente politico, a questo combattente per i valori costituzionali. Quei valori richiamati dalla seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato che saluto, e con lui tutte le autorità civili, militari e religiose che sono intervenute stamattina. Quei valori di cui Pio La Torre fu “fulgido esempio” (come disse il Presidente della Repubblica conferendogli – ahinoi, alla memoria – la Medaglia d’oro al valor civile) e per i quali ci rappresenta tutti, nessuno escluso, presenti e non. Ed è stato questo il senso, credo, della petizione popolare per la “reintitolazione” dell’Aeroporto, non soltanto il segno di un sentimento forte per quest’uomo, che ha più di trent’anni dalla morte per mafia non si spegne.

C’è un Pio La Torre che è di tutti. E un Pio La Torre che di ciascuno di noi. Ero solo un ragazzo, ma la ricordo in casa quell’Unità del 1° maggio del 1982, il tragico editoriale del direttore, suo fraterno compagno, Emanuele Macaluso. Fin dall’inizio della mia militanza politica e nelle istituzioni il nome di Pio La torre ci accompagnò in iniziative e dibattiti, nelle sezioni che ad esso venivano intitolate. La tentazione del mito è sempre stata forte. Ma ben presto scoprii che nel suo caso il politico era di gran lunga più importante del mito: occupandomi da tempo delle questioni legate alla giustizia, l’ho potuto constatare con lo studio del suo lavoro politico e parlamentare. Molte volte, poi, mi è capitato di pensare all’uomo. Ma mai come ieri sera, che arrivavo da Strasburgo e volavo su Comiso. Io rifiuto per indole ogni forma di retorica e non dico parole abusate, come “eroe”. Però è vero che ci sono uomini che cambiano il destino di una terra. E Pio La Torre è stato uno di questi, mai come qui a Comiso. In questo luogo che poteva trasformarsi in un avamposto di guerra e destabilizzazione dell’area, un potenziale arsenale di testate atomiche, e che invece ora diventa una straordinaria opportunità di sviluppo. Senza la sua battaglia, tutto questo non sarebbe stato possibile. Non sarebbe stato possibile, per dire, che atterrasse qui un qualsiasi viaggiatore per venire a vedere questo patrimonio dell’Umanità di natura e cultura.

Pio La Torre fu un grande leader, non un eroe romantico. È un uomo che ha dato il nome a grandi battaglie, ma non era un uomo solo, come qualcuno tende a dire. Nella sua battaglia ebbe sempre dietro altri uomini – e forse qualcosa in più di un partito, un popolo. E se pensiamo a questo popolo che si univa a lui, la nostra responsabilità di tenere viva con la memoria un’ispirazione non diminuisce, aumenta. Il ricordo rischia spesso di inciampare nella retorica. Di quelli che di uomini e storie fanno “un monumento per dimenticare un po’ più in fretta”. Un filosofo ci ha ammonito ad evitare che l’agiografia cancelli la portata rivoluzionaria del pensiero di chi si ricorda. E Pio La Torre è stato un rivoluzionario.

Sì, stavolta voglio usare questa parola forte, perché rivoluzionario è stato il suo approccio alla lotta alla mafia.  Come ho detto qualche giorno fa, a Palermo, ricordando Giovanni Falcone, la mafia colpì certo il giudice, ma colpì soprattutto l’intellettuale, cioè colui che grazie ad una intelligenza delle cose e della storia aveva maturato una visione strategica di lotta alla mafia e l’aveva messa al servizio dello Stato. E questo vale per Pio La Torre. Quell’intelligenza che lo portò a cogliere lo scenario tragico per il progresso e la democrazia, la trama diabolica di nuovi interessi politici e mafiosi che si intrecciava in quegli anni in Sicilia. Furono quelle intuizioni a riportarlo in Sicilia, nel 1981, con ostinazione. Le stesse che gli consentirono di capire, prima di molti altri, di tutti gli altri, che la battaglia pacifista contro i missili (tutti i missili, americani qui e sovietici altrove) si teneva insieme con la lotta a una mafia che stava compiendo un salto di qualità con i primi delitti politico-mafiosi (i democristiani Reina e Mattarella, i giudici Terranova e Costa), e i nuovi equilibri per nuove forme di speculazione e sfruttamento di questa terra. Menti come quella di Pio La Torre, portatrici di una così lucida visione delle cose e capaci di raccogliere intorno ad essa migliaia di cittadini, sono i nemici più insidiosi per la mafia, perché in grado di avanzare strategie di intervento fondate sulla conoscenza dei presupposti materiali e storici dello sviluppo del fenomeno mafioso, così come di quello politico e sociale.

La mafia la aveva vista negli occhi giovanissimo, alla guida della sua gente nell’occupazione delle terre tra il ’45 e il ‘50, di quei braccianti di cui era un un figlio e che reclamavano dignità e lavoro. Era una battaglia nel nome della legge, della giustizia, per l’applicazione dei decreti Gullo, della riforma agraria. E in questa battaglia si dovette scontrare non solo con la mafia, ma anche con la polizia e un apparato repressivo di classe, posti a tutela di un ordine sociale basato su privilegi inaccettabili e insopportabili miserie. Mi fa specie ricordarlo nella mia veste attuale di Ministro della Giustizia, ma per quella lotta in nome della legge, subì la repressione e il carcere. Fu arrestato nel feudo di Bisacquino, il 10 marzo del 1950, con false accuse. Rimase in carcere per un anno e mezzo, in condizioni inumane. Non vide nascere il suo primo figlio. Tanti altri suoi compagni, sindacalisti e capi lega, erano stati assassinati in quegli anni. Per nessuno di essi, venne giustizia dai processi. Chi occupava la terra assieme alla mafia sfidava le classi dirigenti con il dogma codificato della proprietà, della “robba”, santificato anche quando l’abuso di questo diritto sacrificava lo sviluppo e il riscatto di un popolo come nel caso del latifondo nel Mezzogiorno.

Della mafia, Pio La Torre, conosceva la natura profonda, la sostanza, la materialità, che dietro la retorica dell’onore e l’ambigua ed ingannevole ideologia paternalistica nascondeva consistenti interessi materiali, miserabili forme di sfruttamento del lavoro e di intermediazione finalizzata all’indebito arricchimento. Altro che onore. Lo aveva visto a fianco dei più deboli che la mafia non aveva onore, ma fortissimi e ramificati interessi materiali. Questa era la sua natura, e lì bisognava colpirla. E questo fu il filo conduttore del suo lavoro. Rafforzò questi convincimenti nell’esperienza di dirigente sindacale e politico in Sicilia, a partire dagli anni ’70, nell’attività parlamentare in Commissione bilancio e agricoltura. Un tratto ricorrente di molti altri dirigenti comunisti e meridionalisti, suoi compagni come Macaluso, come Gerardo Chiaromonte, che non si sognavano di delegare la lotta alle mafie alle forze della repressione, ma ne facevano il tratto essenziale di una battaglia il riscatto economico e sociale del Sud e della Sicilia.

È seguendo il filo di questa visione che Pio La Torre elaborò la creatura più importante e duratura della sua vita politica. La proposta risaliva alla famosa relazione di minoranza in Commissione Antimafia,  a cui lavorò insieme al giudice Terranova. La mafia, si diceva in quella relazione, che denunciava aspramente connivenze e compenetrazioni politico-istituzionali, è “un fenomeno di classi dirigenti” e si proponeva l’istituzione del 416 bis. Era il 1976, ma la “sua” creatura vide la luce soltanto mesi dopo la sua morte e all’indomani di quella del Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa: la legge Rognoni-La Torre, che oltre ad individuare con il 416 bis la fattispecie del fenomeno mafioso e a sancirne il carattere illecito, introdusse per la prima volta misure di carattere patrimoniale in grado di colpire il cuore economico e la fonte del consenso sociale della mafia, la sua ricchezza. Una legge che nasceva non solo dalla antica conoscenza del fenomeno mafioso, ma anche e soprattutto dalla comprensione della sua evoluzione in quegli anni, dal suo salto di qualità economico e finanziario dovuto alla gestione e al controllo del mercato della droga.
La Torre rifletteva sul fatto che per persone che mettono nel conto la morte tutti i giorni, in cambio di potere e ricchezza, il mero inasprimento delle pene non poteva essere un vero deterrente, ma occorreva incidere su ciò a cui erano più attaccati: il denaro, le terre, il cemento, le imprese. La “robba”, appunto.

Una lezione straordinaria, che non perde la sua attualità. Dobbiamo riflettere proprio in questo senso, anche oggi, quando parliamo di intensificare e affinare la lotta alla corruzione. Una rivoluzione culturale, nell’approccio normativo al contrasto all’illegalità, che è forse il lascito più importante di una legge che diede frutti subito e molti ancora nel corso del tempo: non solo strumenti per agire a giudici come Falcone e Borsellino ma soprattutto le linee fondamentali per contrastare l’economia criminale, e per adeguare nel tempo gli stessi strumenti ai mutamenti. Questo, sul fronte della lotta alle mafie, è quello che dobbiamo fare ancora oggi. La nostra legislazione è tra le più avanzate, anche grazie alle intuizioni di La Torre, ma deve acquisire una dimensione europea, raccogliendo il lavoro fatto in questi anni dal Parlamento di Strasburgo e dalla sua commissione per la lotta al crimine, e deve riaffermarsi con l’introduzione di nuovi strumenti che rendano più difficile lo sviluppo economico criminale come, ad esempio, l’introduzione del reato di auto-riciclaggio e la revisione del falso in bilancio.

Dai tempi di Pio La Torre la mafia ha cambiato pelle al ritmo dei mutamenti globali, ha cambiato la natura della sua pervasività territoriale, la capacità di condizionare le istituzioni politiche ed economiche. Molti colpi le sono stati inferti, ma pagando un tributo troppo alto di sangue. La mafia non ha vinto ma non è stata sconfitta, la sua potenza economica è imponente e assistiamo a una recrudescenza di violenza e controllo sociale. Per questo bisogna continuare su quell’antimafia, su cui si sono dette negli ultimi tempi molte parole. Forse troppe, al punto che sempre più bisogna dedicarsi a praticarla, più che a proclamarla. E non solo fornendo strumenti più efficaci e aggiornati agli apparati repressivi, ma riprendendo quel carattere di lotta politica e sociale per lo sviluppo che è il terreno, forse, su cui siamo rimasti più indietro e su cui le battaglie di uomini come Pio La Torre hanno conseguito minori risultati. Questo aeroporto, con le sue potenzialità, è un pezzo di questa sfida per lo sviluppo da rilanciare.

Perché il sogno di La Torre, alimentato proprio con la lotta pacifista di Comiso, di fare di questa terra e del mare che la circonda un luogo di pace e prosperità è quanto mai lontano dall’essere realizzato. E si volge ancora in questi giorni nell’incubo da cui non usciamo di un mare carico di morte e disperazione, che separa come forse mai nella storia i destini dei popoli, le vite che lo attraversano. Un sogno capovolto, come quei barconi affondati che ricoprono noi, l’Europa, di infamia e di vergogna. E avremmo bisogno di uno scatto di civiltà, di un sussulto di virtù civile, di qualcosa che assomigli a quelle marce che guidava Pio La Torre su queste strade. Sapere che proprio qui, sotto questo cielo e di fronte a questo mare, un luogo di incontro e di scambio come un aeroporto civile porta quel nome è un piccolo segnale, ma che tutti dobbiamo sapere onorare. Comiso oggi ritrova il suo orgoglio. L’orgoglio di Sicilia, nel nome di Pio La Torre.” 

 

Biografia di Pio La Torre

Pio La Torre nasce ad Altarello di Baida, una borgata di Palermo, la vigilia di Natale del 1927. Cresciuto insieme a cinque fratelli in una famiglia di poveri contadini, senza acqua e luce elettrica in casa. Il suo impegno politico comincia con l’iscrizione al Partito Comunista nell’autunno del 1945 e la costituzione di una sezione del partito nella sua borgata, la prima delle tante che contribuisce ad aprire anche nelle borgate vicine.

“La terra a tutti”

Il periodo tra il 1945 e il 1950 è caratterizzato dalla lotta per l’effettiva applicazione dei decreti Gullo, provvedimenti legislativi emanati dall’allora ministro dell’agricoltura del governo Badoglio che garantivano ai contadini maggiori diritti e più terre da coltivare. Pio La Torre, divenuto nel 1947 funzionario della Federterra e successivamente responsabile giovanile della Cgil e quindi responsabile della commissione giovanile del PCI, partecipò attivamente a queste proteste.

Nel luglio del 1949 è membro del Consiglio Federale del PCI che dà l’inizio ufficiale all’occupazione delle terre, lanciando lo slogan: “la terra a tutti”.  Il progetto prevedeva che i contadini di dodici paesi (Corleone, Campofiorito, Contessa Entellina, Valledolmo, Castellana Sicula, Polizzi, alcune borgate di Petralia Soprana e di Petralia Sottana, Alia, S. Giuseppe Iato, S. Cipirello, Piana degli Albanesi) confluissero a Corleone da dove, la mattina di domenica 13 novembre 1949, sarebbero partiti una serie di cortei che avrebbero occupato e preso possesso di tutte le terre censite come incolte e mal coltivate. Partecipano quasi seimila persone che all’alba della domenica partono da Corleone e si dirigono verso i feudi da occupare, tra questi anche quello in cui Luciano Liggio era gabellotto, il feudo Strasatto.

La “pausa invernale” dovuta all’attesa dei frutti della semina servì a La Torre e al partito per organizzare le lotte primaverili, quando si sarebbe dovuto lottare per conservare il diritto di raccolta sugli ettari seminati in autunno e rivendicati dai proprietari agrari.
La data fissata per la ripresa della lotta è il 6 marzo 1950.

L’arresto a Bisacquino

Il 10 marzo 1950 il movimento dei contadini è a Bisacquino dove si prevedeva di occupare i quasi duemila ettari di terreno del feudo Santa Maria del Bosco. Pio La Torre è alla testa del corteo, lungo quasi cinque chilometri e formato da circa seimila persone. Arrivati sul feudo si procedette all’assegnazione di un ettaro di terreno a testa fissando i limiti di divisione. Sul calar della sera, quando i contadini stanno percorrendo la strada che li riporterà alle loro case, vengono circondati dalle forze di polizie inviate dal prefetto Vicari.

La Torre cerca di convincere il commissario Panico, a capo degli agenti di desistere dalla repressione, ma questi ordina di strappare ogni bandiera e vessillo dalle mani dei contadini, ne nasce una sassaiola e a quel punto il commissario Panico ordina di sparare: molti braccianti sono colpiti. La Torre, che in un primo momento era rimasto tra i poliziotti, si sposta in mezzo ai contadini cercando di dissuaderli dal reagire con lanci di sassi agli spari dei poliziotti. La battaglia continua fino a sera quando, insieme ad altre centinaia di contadini, anche La Torre viene arrestato. È Accusato, ingiustamente, dal tenente Caserta di averlo colpito con un bastone. La Torre viene ammanettato e condotto al carcere dell’Ucciardone di Palermo dove, all’alba dell’11 marzo, viene incarcerato.

La detenzione

Pio La Torre rimane in carcere per circa un anno e mezzo: dall’11 marzo 1950 al 23 agosto 1951. Fu un periodo molto duro, al normale disagio di una persona incarcerata e consapevole della propria innocenza, si aggiungevano le difficili condizioni di detenzione, in cella d’isolamento per alcune settimane in attesa dell’interrogatorio. Il primo colloquio con la moglie, in attesa del primo figlio della coppia, Filippo, che sarebbe nato il 9 novembre, fu concesso dopo qualche mese e solo grazie alle pressioni della famiglia Zacco sul sostituto procuratore generale Pietro Scaglione.

Non che le condizioni nelle quali si svolgevano i colloqui fossero migliori della detenzione, i parenti e i detenuti sporgevano la testa da una porta di ferro con dei buchi, l’una di fronte all’altra e divise da un corridoio nel quale sostava un agente di custodia. La possibilità di un contatto fisico era dunque negata a causa del “carattere politico” del reato per cui La Torre era imprigionato. Durante la detenzione lesse le opere di Gramsci, alcuni scritti di Lenin e Labriola. Era comunque molto difficile riuscire a procurarsi questi libri, fondamentale fu dunque l’aiuto di alcune guardie carcerarie. Il processo, che si svolse nel vecchio salone del tribunale di Piazza Marina a Palazzo Steri, si protrasse per dieci udienze, mettendo in luce le ingiuste accuse formulate dal tenente Caserta contro La Torre che fu così, il 23 agosto 1951 scarcerato.

Il ritorno all’azione

Nel 1952 assume la carica di dirigente alla Camera confederale del lavoro e fu organizzatore di una massiccia raccolta di firme per la campagna universale a favore dell’appello di Stoccolma, lanciato dal movimento internazionale per la pace, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche.

Nello stesso anno fu eletto per la prima volta al Consiglio comunale di Palermo dove resterà fino al 1966. In questo periodo diventa segretario regionale della Cgil, nel 1959 e del PCI siciliano (1962-1967). In entrambi i casi, succedendo a Emanuele Macaluso. Viene eletto nel 1963 per la prima delle due legislature in cui resterà in carica, all’Assemblea regionale siciliana. Nel 1969 viene chiamato a Roma dal partito alla Direzione centrale del PCI dove ricopre l’incarico di vice responsabile della Sezione agraria e della Sezione Meridionale. Messosi in luce per le sue doti politiche, Enrico Berlinguer lo fece entrare nella Segreteria nazionale.

Nel 1972 viene eletto al Parlamento dove resterà per tre legislature, facendo parte delle Commissioni Bilancio e programmazione Agricoltura e Foreste, della commissione parlamentare per l’esercizio dei poteri di controllo sulla programmazione e sull’attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel Mezzogiorno ma soprattutto della commissione Antimafia.

La lotta alla mafia

Appena eletto in parlamento, nel maggio del 1972, entra a far parte della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. La commissione era stata istituita nel 1962, durante la prima guerra di mafia e pubblicò il suo rapporto finale nel 1976. La Torre, insieme al giudice Cesare Terranova, redasse, e sottoscrisse come primo firmatario, la relazione di minoranza che metteva in luce i legami tra la mafia e importanti uomini politici, in particolare della Democrazia Cristiana. Alla relazione aggiunge la proposta di legge “Disposizioni contro la mafia” tesa a integrare la legge 575/1965 e a introdurre un nuovo articolo nel codice penale: il 416 bis.
Una proposta che segna una svolta radicale nella lotta contro la criminalità mafiosa. Fino ad allora infatti il fenomeno mafioso non era riconosciuto come passibile di condanna penale. La proposta di legge La Torre prevedeva l’introduzione nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, che introduce il reato di associazione mafiosa punibile con una pena da tre a sei anni per i membri, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza per gli arrestati della possibilità di ricoprire incarichi civili e soprattutto l’obbligatoria confisca dei beni direttamente riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.

Pio La Torre ha una grande conoscenza del fenomeno mafioso e del suo sistema di potere. È conscio delle sue trasformazioni, dalla mafia agricola e del latifondo, combattuta negli anni dell’adolescenza, alla mafia urbana e dell’edilizia che, grazie ad appalti pilotati, perpetrò, grazie alle connivenze con le dirigenze politiche locali, il cosiddetto “Sacco di Palermo”, fino alla mafia imprenditrice dedita al traffico internazionale di droga con agganci nell’alta finanza.

Non ha paura di fare chiaramente i nomi e i cognomi dei conniventi politici, famosi i suoi giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo siciliano fino al 1975. Dalla sua analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato emerge la sua convinzione che “[la] compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)…La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti”.

Nel 1981 Pio La Torre decide di tornare in Sicilia, in un momento storico in cui la strategia mafiosa di intimidazione dei rappresentanti più impegnati nell’azione di contrasto da parte dello Stato contro la mafia, era al massimo fulgore. Negli anni precedenti erano stati uccisi illustri rappresentanti dello stato come il giudice Cesare Terranova (il 25 settembre 1979), il procuratore della repubblica Gaetano Costa (6 agosto 1980) e il presidente della regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980). Proprio lui decide di assumere l’incarico di segretario regionale del PCI, carica che assume nell’autunno del 1981 sostituendo Gianni Parisi.

Immediatamente, al ritorno in Sicilia, intraprende la sua ultima battaglia, quella contro l’istallazione dei missili nato nella base militare di Comiso.

L’ultima battaglia

Il governo italiano aveva annunciato il 7 agosto del 1981 l’accordo con la Nato per l’installazione degli euromissili nucleari Cruise nella base militare di Comiso in provincia di Ragusa. Siamo in piena guerra fredda. La Torre da forza e organizzazione ad un movimento crescente di protesta contro l’istallazione vista come minaccia alla sicurezza, non solo siciliana, e non come possibile fonte di ritorno economico. Il clima di tensione tra gli Stati Uniti e la Russia comportava l’adozione di un atteggiamento prudente e di trattativa che, non per questo, rendeva meno convinte le richieste da parte dei protestanti.

La Torre lanciò dal Circolo della Stampa di Palermo una petizione nell’ambito di un convegno a cui parteciparono esponenti di ogni orientamento politico, culturale e religioso. L’obiettivo era raccogliere un milione di firme. La prima grande manifestazione fu fissata per l’11 ottobre 1981, a Comiso, con un gran numero di partecipanti provenienti, in marcia, da Palermo.

Il successo della protesta fu enorme e la raccolta di firme straordinaria. Lo stesso La Torre spiegò in un articolo postumo pubblicato su “Rinascita” del 14 maggio 1982 che le ragioni della contrarietà ai missili era basata sulla assoluta contrarietà alla “trasformazione della Sicilia in un avamposto di guerra in un mare Mediterraneo già profondamente segnato da pericolose tensioni e conflitti. Noi dobbiamo rifiutare questo destino e contrapporvi l’obiettivo di fare del Mediterraneo un mare di pace”.

I suoi propositi furono bruscamente interrotti la mattina del 30 aprile del 1982.

 

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