Vent’anni di leggi ad personam

di Marco Damilano – da L’Espresso.it

Luglio 1990: su pressione di Craxi, viene approvata la riforma Mammì della televisione. È l’inizio di una china discendente verso l’asservimento del Parlamento agli interessi di un uomo solo. Che, dopo Bettino, deciderà di fare da sé

(05 luglio 2010)

Luglio 1990, venti anni fa. Un’altra estate di Mondiali, di notti magiche inseguendo un gol, di giovani donne trucidate (Simonetta Cesaroni in via Poma), di venti di crisi nel governo. «L’ombra della crisi sulla legge Tv», titolava “Repubblica” il 18 luglio 1990. Incipit del pezzo firmato Sandra Bonsanti: «Alla vigilia delle votazioni sulla legge Mammì, un accordo tra la maggioranza Dc e la sinistra di De Mita e Bodrato appare ancora molto difficile. Nessuno sembra disposto a recedere da posizioni saldamente delineate. E le voci di crisi di governo coprono l’ arco di una giornata carica di tensione conclusasi all’una di notte quando è terminata l’ assemblea del gruppo parlamentare. Se Andreotti dovesse decidersi a mettere il voto di fiducia, per contentare i socialisti, cinque ministri (Mattarella, Mannino, Fracanzani, Martinazzoli e Misasi) potrebbero dimettersi. E sarebbe la crisi di governo…».

La Camera bloccata per mesi a discutere della legge sull’emittenza televisiva che portava il nome del ministro delle Poste, il repubblicano Oscar Mammì. Doveva servire a rimettere ordine nel far west dell’etere, fu la madre di tutte le leggi ad personam, la prima di una lunga serie. «Non è mai successo che il Parlamento fosse chiamato a tutelare gli interessi di una sola persona», si sfogò il dc di sinistra Paolo Cabras con Miriam Mafai. Alla fine i cinque ministri si dimisero, furono sostituiti in pochi minuti e la legge passò con un voto di fiducia. Il Caf, il Craxi-Andreotti-Forlani, sembrava inaffondabile e sulla legge Berlusconi aveva misurato i rapporti di forza con i dissidenti della sinistra dc, costretti a un inutile gesto di testimonianza politica, troppo poco per bloccare quella che sembrava una perfetta macchina di potere.

A rivederlo oggi, invece, l’approvazione della legge Mammì appare per quello che è. Il passaggio di mano, il ribaltamento delle posizioni. Fino a quel momento Silvio Berlusconi era un imprenditore spregiudicato costretto a dipendere dalla politica che poteva decidere, da un momento all’altro, di staccare la spina e spegnere le sue televisioni. Una volta approvata la legge che gli consegnava il monopolio dell’emittenza privata e del mercato pubblicitario il Cavaliere non aveva più bisogno dei padrini politici. La creatura era diventata più forte dei suoi creatori e si preparava a sostituirli: come capì Nanni Moretti in una indimenticabile scena del Portaborse: «Noi a quei signori con una legge abbiamo regalato metà del mercato pubblicitario nazionale…».

Il luglio 1990 rappresenta l’atto di nascita del berlusconismo. Non a caso con un atto di forza sul Parlamento. Il dna del mostro, le sue impronte digitali. Venti anni dopo siamo ancora qui: la Camera bloccata a discutere di intercettazioni, l’ossessione di una sola persona trasformate nell’ossessione di un paese. E ancora una volta c’è una parte della maggioranza che resiste, che minaccia di votare contro. Ombra di crisi di governo, oggi come allora. Imprevedibile che al posto della sinistra dc ci siano i finiani. Granata come Martinazzoli, Briguglio al posto di Mattarella, Fini che incarna la legalità e i valori della Costituzione, quelli che per Berlusconi, dice a “Repubblica” sprezzante il presidente della Camera, «forse sono il nome di una medicina e lo mandano in bestia». Venti anni fa, però, la sinistra dc non ebbe il coraggio di rompere la maggioranza e alla fine si allineò. I finiani segneranno la fine del ventennio berlusconiano? Chissà. Di certo mai la crisi è stata così vicina come in queste ore. E almeno sul calendario, il 25 luglio è vicino.