Quando si parla di emigrazione, del fenomeno sempre più simile alle “fughe” degli anni ’60 dal Sud verso il Nord, si possono citare numeri e statistiche. Ma ognuno di noi sicuramente, parlandone e riflettendo, avrà in mente almeno una persona, un parente, un amico o un conoscente, che si è visto costretto a lasciare la propria terra per cercare fortuna altrove. Ma se negli anni ’60 si partiva quasi con la certezza di trovare un lavoro, un lavoro stabile, oggi i nostri ragazzi partono con le valigie piene di speranza. Oltre che di esperienze formative che paradossalmente al Sud rischiano di risultare penalizzanti: una laurea, un master, essere iper-specializzati al Sud è a volte un ostacolo nel trovare lavoro. Ne abbiamo discusso ieri pomeriggio a Catania, al caffè-libreria Tertulia, in occasione della presentazione di un ottimo libro scritto da Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano. Titolo emblematico, “Ma il cielo è sempre più su”? è un libro che parte dai numeri ma affronta di petto una analisi su una generazione definita senza mezzi termini “sotto sequestro”. Ne abbiamo discusso con uno degli autori, Giuseppe Provenzano, con il segretario del circolo universitario del Pd catanese Jacopo Torrisi, con Rosario Liuzzo, segretario dei Giovani democratici e con Luca Spataro, segretario provinciale del Pd. Come ulteriore spunto di riflessione, alla fine, riporto il pezzo che su questo libro ha scritto adriano Sofri, pubblicato proprio oggi da Repubblica.
E allora si parta dalle cifre, che non possono lasciarci indifferenti. Nel Mezzogiorno un terzo dei giovani non lavora e tra quelli che il lavoro lo hanno, per metà l’hanno trovato al Centro-Nord. Ma quant’è grande questo fenomeno? Leggendo il libro di Bianchi e Provenzano si capisce che siamo di fronte ad un fenomeno di uguale portata all’emigrazione degli anni ’60, quando si raggiunsero picchi di 300 mila emigrazioni l’anno. Spostamenti oggi in parte nascosti: i cambi di residenze sono soltanto 120 mila l’anno ma ben 175 mila persone cambiano città mantenendo la residenza nel proprio paese d’origine. Lo ha raccontato, ieri, Giuseppe Provenzano. E anche lui è uno di quei 175 mila emigrati verso il Centro-Nord ancora legato al comune in cui è nato, almeno anagraficamente.
Un fenomeno enorme. Di cui però si parla sempre meno. Al contrario, siamo circondati da un clima di antimeridionalismo generalizzato: siamo quelli che imbrogliano per andare avanti, siamo quelli “furbi”, quelli che si affidano alla raccomandazione, alla pratica dell’anticamera, siamo quelli delle scorciatoie. E’ un clima culturale che ci impone una riflessione: una riflessione su noi stessi, noi gente del Sud e noi del Partito democratico. Siamo noi che dobbiamo far capire alle classi dirigenti che questo Meridione è diverso e questo libro può fornirci molti spunti in questo senso.
Come si cambia strada allora? Come si può allontanare lo spettro – evocato nel lavoro di Bianchi e Provenzano – di un Mezzogiorno 2030 abitato da vecchi e da poveri? Noi abbiamo una grande responsabilità e non vogliamo negarlo. Abbiamo bisogno di una classe dirigente convincente, che riporti il Mezzogiorno al centro del dibattito nazionale, una classe dirigente capace di ripartire parlando proprio del Mezzogiorno e dei suoi problemi. E’ un punto di partenza ma – cito un passo del libro – al punto in cui è ridotto il Sud, cambiare non solo è necessario. Cambiare conviene.
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I Mille di oggi viaggiano al contrario
ADRIANO SOFRI PER LA REPUBBLICA –
Ogni anno 300mila giovani partono dal Sud verso il Nord in cerca di un futuro. Magari la cifra esatta sarà incisa nel bronzo fra 150 anni. Ce ne sono 300 mila all´anno, fra definitivi e pendolari, che hanno lasciato famiglia e studi per cercare lavoro. I numeri contano, non solo per l´effetto simbolico, e non solo per replicare alla fantasia delle cifre berlusconiste. C´è un´emigrazione dal Sud al Nord che rinnova le proporzioni degli anni ´60. “Contare, prima di raccontare”: è il programma del libro di Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano (“Ma il cielo è sempre più su?”, Castelvecchi). Del resto, “è una storia che nel Mezzogiorno tutti raccontano. E meglio degli altri, le nonne, le madri. La storia di figli che partono, di madri che preparano valigie e pacchi di conserve, di telefonate una volta al giorno, alla sera. Di famiglie che si rivedono una o due volte l´anno, d´estate e a Natale, dieci giorni al mare e dieci giorni a svernare”. Tra le due Italie – le chiamiamo ancora così, vero? – questo è lo specchio più eloquente: il Nord che attira il Sud (i Sud, anche gli stranieri) e il Sud da cui si fugge o si è cacciati (o recintati, come a Rosarno). Anche quando non si usasse più lo stesso nome, come già fanno gli irredentisti padani, resterebbe il nome comune di Europa. Ma proprio guardando all´Europa la differenza risalta di più, perché il Nord è fra le regioni più ricche e il Sud fra le più povere. Nel 2005, la Lombardia ha il 136 per cento del Pil medio pro capite dell´Europa, il Meridione il 62 per cento. (E peggiora: 10 anni prima superava il 69 per cento).
Oggi, il Sud non è ricco nemmeno di nascite. Le donne del Nord-est fanno più figli di quelle meridionali. La natalità più bassa in Italia è della Sardegna e della Basilicata. Calabria, Basilicata, Puglia, Campania e Molise hanno da anni un saldo demografico negativo o stagnante. Al Nord, il calo demografico è compensato dall´immigrazione, al Sud no. Ad andarsene dal Sud sono soprattutto i giovani laureati, e quelli con gli studi e i voti migliori. Sono le prime file della “modernizzazione” del Sud – anche civile, contro le mafie, il pizzo – e insieme i più espulsi da una società “pietrificata”. Non è vero forse il contrario, che i “migliori” vanno a cercare altrove la propria realizzazione? No, se la fuga è la loro unica occasione di mobilità sociale. Vuol dire che i giovani del Sud hanno studiato solo per emigrare, salvo affidarsi allo stato di famiglia e di clientela, la vecchia e la neoborbonica dei “partiti del sud” vagheggiati per fare il verso alla Lega e andare alla deriva opposta. Ed è qui che bisogna passare dal conto al racconto – parola, come il sinonimo narrazione, così frequentata da Vendola. Un “sogno a occhi aperti, magari, un sogno che faccia i conti con la realtà, con la politica dell´irrealtà di cui parlava Guido Dorso: la realtà che supera le contingenze”. Indicando le “tracce di una nuova questione meridionale”, i giovani autori denunciano rimozione e disprezzo per un Mezzogiorno “ingabbiato” nel suo passato, e lasciato in preda ad avventurieri politici, intermediatori da retrobottega, o eterni aspiranti masanielli. L´idea di fondo è quella di una “generazione sequestrata”, e con essa il futuro del Sud. Nella critica feroce alle classi dirigenti meridionali – fin troppo “radicate” nel loro territorio… – autrici di questo sequestro, sono amaramente comprese quelle di centrosinistra. Ottimi dirigenti politici trasformati in professionisti della spesa pubblica, ripiegati nel mito del localismo, hanno finito per utilizzare gli investimenti più per alimentare e consolidare un consenso territoriale che per rompere gli interessi al mantenimento dello statu quo. Interessi ora rinsaldati – per fortuna, solo fortuna, con contraddizioni interne – in un “blocco sociale dominante” all´insegna dell´alleanza tra Pdl e Udc che ha tinto del proprio colore un Sud che arriva dalla Sicilia a Roma.
C´è, dicono gli autori, un peccato originale del Pd, e prima di Ds e Margherita, nel lasciar proliferare oligarchie locali stabilendo tutt´al più rapporti di reciproca non interferenza. “Troppi leader, all´indomani di ogni scandalo che ha a che fare con la politica al Sud, pontificano sul degrado del costume politico meridionale, e ricordano la donnaccia a cinque franchi che Baudelaire portò al Louvre e che si scandalizzava per le oscenità esposte”. Può essere il federalismo la chiave di volta nazionale, un messaggio che valga da Palermo ad Aosta? Può darsi, ma con due avvertenze. Dove lo Stato unitario ha fallito, non è servito il regionalismo, che anzi al Sud ha fatto registrare un magrissimo bilancio, alimentando rendite legate alla spesa pubblica e facendo smarrire la dimensione macroregionale e mediterranea delle sfide e delle opportunità cruciali per il Mezzogiorno. Al punto in cui è ridotto il Paese, il termine “federale” dovrebbe riprendere l´accento originario: tendere verso ciò che unisce e tiene insieme. Altrimenti l´accento secessionista scivolerà dalle regioni alle divergenze di province e comuni, e tifoserie ed etnie e gruppi e bande e famiglie, che l´ideologia del “territorio” maschera a fatica. Ma il messaggio nazionale può misurarsi proprio con le scelte compiute dai padri di oggi – “che amano i propri figli a dismisura (oltre il buon costume, oltre le regole), ma che non si curano mai dei figli degli altri, dei giovani in generale”. Sull´economia, sul welfare, sull´ambiente, sulle scelte urbanistiche, la lettura generazionale indica un´altra rotta. Di un cambiamento che non solo è necessario ma, nel Sud dei garibaldini alla rovescia che fuggono e giurano di non tornare più, al punto in cui siamo, perfino “conviene”. La riscoperta del Sud – dov´è una così forte mobilità di voto, che fa vincere e perdere le elezioni – alla vigilia delle celebrazioni per l´Unità, può essere un´occasione importante, ma porta con sé i rischi impliciti in ogni riscoperta: il riaffiorare di retoriche inservibili, o di una moda di stagione destinata presto a svanire. Il Sud è più che mai luogo di complessità. La molteplicità dei problemi impone agli attori pubblici di “sporcarsi le scarpe”, come diceva Manlio Rossi Doria. Questa pluralità, con punte di miseria e sottosviluppo e altre di innovazione e modernità, non può far rinunciare alla categoria “Mezzogiorno”. Il declino del meridionalismo coincide col declino della sinistra, ed entrambi con l´eclisse dell´idea dell´uguaglianza e della tensione alla solidarietà. La deriva localistica e separatista rischia di deflagrare con la crisi (economica e sociale, ma anche politica) – perché nei naufragi non è detto che prevalga la solidarietà, e più spesso prevale il cannibalismo. Dopotutto, la lezione più smaccata dei 150 anni non può che essere questa: che l´Italia si fece, ed era molto improbabile, e può disfarsi, ed è diventato quasi probabile. A questo punto si passi a un altro libro, Giorgio Ruffolo, “Un paese troppo lungo. L´unità nazionale in pericolo”. Lì si ricapitola la storia, e anche la battuta di un vecchio professore estremista: “Nord alla Lega, sud alle mafie”.
La Repubblica, 11 maggio 2010
Che tristezza infinita. Cambierà mai qualcosa in Sicilia?
Mi sembra ieri (ma era fine 1989) che toccava a me partire con la valigia alla volta di Bologna per poter lavorare e, quindi, studiare … Ma onestamente non fu un dramma … Sarà il mio conclamato disamore per il Sud in cui sono nato, ma non feci tragedie … Certo, ripensandoci, ero davvero solo ed in balia di qualsiasi cosa, il Padreterno mi ha messo una mano sopra la testa per proteggermi … E’ stato faticoso, ma mi sono formato e sono cresciuto, ho studiato con alcuni fra i migliori filosofi d’Italia e fino a quando mi sono tenuto lontano da Catania tutto è andato benissimo … Insomma, io il consiglio lo do sempre a tutti i giovani: fuggite e non guardatevi mai indietro, questa terra non dà nulla, questa gente non merita nulla …
Eppure quanti geni sia scientifici che letterari, sforna il meridione. Che peccato.
Ma non credere che in questi 50’anni le cose siano andate meglio. Anzi, una volta avevate speranze e sogni, oggi i giovani neanche più questo, sia chiaro.
Che tristezza leggere nel 2010 di ragazzi del sud con la valigia. Sembra non sia cambiato nulla da quand’ero ragazzino io. Eppure sono passati quasi 50’anni.