In memoria di Massimo D’antona

Ad undici anni esatti dall’omicidio di Massimo D’Antona, un ricordo affidato alle parole espresse di chi aveva a lungo lavorato e vissuto al suo fianco. Le commemorazioni di Massimo scritte poco dopo la sua morte dalla rivista LPA,  Bruno Caruso, Gino Giugni,  Mattia Persiani e Daniele Ranieri.

MASSIMO D’ANTONA

20 maggio 1999: un commando terrorista uccide Massimo D’Antona. E’ un assassinio che colpisce un uomo, uno studioso raffinato, il sindacato, uno stile di relazioni fra intellettuali e governo, un progetto di modernizzazione dello Stato e del welfare. Ed è un assassinio carico di messaggi contro tutto ciò che Massimo ha rappresentato.

Il 20 maggio è l’anniversario dello Statuto dei lavoratori (1970), una conquista di civiltà che segnò profondamente l’assetto dei rapporti sindacali e politici del nostro paese. Massimo si formò in quella stagione, ad una “duplice scuola”, quella universitaria del suo Maestro, Renato Scognamiglio, prestigiosa per stile e rigore, e quella della “Rivista giuridica del lavoro”, allora impegnata in una rilettura costituzionale della normativa giuslavorista.

Vinse nel 1980 la cattedra di diritto del lavoro, con un’opera di altissimo livello, “La reintegrazione nel posto di lavoro”, che resta un modello di ricerca e di analisi per i giuristi che hanno a cuore la “effettività” – parola a Lui cara – degli interventi legislativi in materia di lavoro. Nelle Università di Catania, di Napoli e, infine, di Roma, è stato da tutti stimato e apprezzato per il rigore del suo metodo e la problematica profondità del suo insegnamento.

Il suo lavoro scientifico è noto non solo agli studiosi, ai lettori e agli operatori del diritto sindacale, ma anche a quelli del diritto amministrativo, avendo egli contribuito in maniera determinante al processo di “privatizzazione” del pubblico impiego. Proprio da un saggio degli anni 80 sull’amministrazione pubblica del diritto del lavoro parte la riflessione di Massimo sull’importanza della stessa pubblica amministrazione come fattore essenziale di un equilibrio dinamico tra forze e soggetti che responsabilmente assolvono al loro ruolo di “produttori”.

Il rapporto con il sindacato è stato connaturale al modo in cui Massimo interpretava il suo impegno di studioso. Nella Consulta giuridica e nell’Ufficio legale della CGIL, nelle sedi unitarie di dibattito sui problemi giuridici dell’occupazione e del lavoro, il suo maggiore impegno è consistito nella ricerca di percorsi e di soluzioni che connotassero il sindacato come soggetto della trasformazione e dell’innovazione, spesso mettendo in guardia da posizioni e impostazioni di mera conservazione dell’esistente.

Giunse nell’area di governo come un tecnico prestato alla politica. Sùbito si mise alla prova con temi complessi: dalla riforma del Ministero dei trasporti e della navigazione, alla regolamentazione dei conflitti sindacali nei servizi pubblici, alla “unificazione delle regole” fra lavoro pubblico e lavoro privato, alla creazione di una nuova dirigenza pubblica, alla disciplina della rappresentanza sindacale nel settore pubblico. Su ciascuno di questi temi, l’impegno di Massimo è stato quello di un intellettuale che, da una parte, si riconosce nei processi di riforma orientati alla modernizzazione del Paese e, dall’altra, rifornisce questi processi con una dottrina mai fine a se stessa e, anzi, largamente coniugata con la pratica dello “scriver norme” e del fissare con chiarezza i passaggi e le tappe delle trasformazioni.

La privatizzazione “piena” del pubblico impiego resta la sua realizzazione più compiuta sul versante normativo. Vi si è dedicato per tre anni, con una determinazione pari alla necessità di costruire un argine resistente contro ogni tentativo di “marcia indietro” rispetto alla direzione intrapresa. E questo con due fondamentali preoccupazioni: quella per la “effettiva” trasmigrazione al giudice ordinario della giurisdizione in materia di lavoro pubblico e quella per la compatibilità fra i costi della contrattazione collettiva e gli equilibri di finanza pubblica. L’idea di fondo era che la “effettività” delle situazioni sostanziali riconosciute ai lavoratori non potesse prescindere dal confronto con le norme costituzionali, troppo a lungo neglette, che imponevano di costruire una solida coerenza fra i costi dello Stato sociale e le dinamiche della spesa pubblica. Oggetti, tutti, dei quali troppo poco ci si era, in precedenza, occupati in ambiente giuslavoristico, quasi che il diritto del lavoro non debba, quotidianamente, fare i conti – pena la sua “ineffettività” – con le impostazioni e con i vincoli di una politica economica che cerchi, fra difficoltà di ogni genere, di accrescere il reddito e l’occupazione.

E’ in questa stagione che nacque l’idea di fondare “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, di cui Massimo fu parte decisiva.

L’elaborazione del “testo unico sul lavoro pubblico”, che egli sostenne e che figura come specifico obbligo di legislazione delegata nella legge n. 50 del 1999, lo avrebbe visto protagonista, nei prossimi mesi, di un’opera di razionalizzazione; un’opera destinata a viaggiare in parallelo con la definizione di un altro disegno, cui pure aveva partecipato e che riguarda, da una parte, il decentramento di funzioni statali a regioni ed enti locali e, dall’altra, la riforma dell’amministrazione dello Stato centrale.

Il più recente impegno di Massimo è stato per il Patto sociale e il Piano dell’occupazione, dove pure è riuscito ad introdurre la cultura nuova dell’unità delle regole fra “privato” e “pubblico”, con il Ministero del lavoro ricondotto a quel ruolo di “amministrazione delle politiche del lavoro”, da tempo ormai smarrito.

Chi ha conosciuto Massimo in amicizia ha avuto la precisa idea che lui fosse maturo per assumere, in un tempo non lungo, probabili responsabilità di governo. In questo senso, Massimo rappresentava la “classe politica di nuova generazione”, per cui il suo assassinio è anche un messaggio di intimidazione verso quanti cercano di cambiare i codici tradizionali della politica, che è fatta – per gli autentici servitori dello Stato – di lavoro e sacrificio quotidiano, spesso oscuro, sempre disinteressato.

Lo ricorderemo come uomo mite ma profondamente determinato, dolcemente ironico, lucido e colto: come amico, come compagno di tante avventure intellettuali, come anticipatore di idee, progetti, iniziative destinati a restare e a dar frutto. Lo ricorderemo, insieme alle persone a lui più care di sè stesso, la moglie Olga e la figlia Valentina, cui va tutta la nostra stima e la nostra umana simpatia.

Vigileremo e lavoreremo, con la tenacia e la convinzione di Massimo, affinché la violenza che lo ha colpito non abbia il sopravvento sui valori che con Lui abbiamo condiviso.

Rivista LPA
Questo ricordo comparirà anche sul fasc. 2/99 della rivista Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni

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Per MASSIMO: in memoria.

Ho conosciuto Massimo nel 1980 in un luminoso pomeriggio di marzo. Veniva da Roma a Catania con un incarico di insegnamento in diritto del lavoro, poco prima di vincere la cattedra; era stato chiamato, da un uomo lungimirante come Giuseppe Auletta; veniva a coprire un vuoto, in una Facoltà di grande prestigio, appena aperto dal trasferimento a Napoli di Lello De Luca Tamajo che era stato sino ad allora, il mio punto di riferimento, il mio primo maestro e che era suo fraterno amico.

Erano momenti esistenzialmente tremendi per i siciliani della mia generazione: dietro gli anni ’70 e le macerie di un sogno infranto, tramutatosi nel mostro, allora recente, del terrorismo, sviluppatosi quasi come germinazione accanto a noi, anche tra compagni di strada; intorno, altri mostri di più antica memoria: la pesantezza del dominio della piovra mafiosa, della sua violenza, della sua cultura vincente infiltrata anche negli gangli più riposti della società civile, della politica e delle istituzioni.

Per noi l’università non era una carriera, era un luogo dove finalmente riposare e cercare senso e risposte a mille domande, a mille dubbi, a mille inquetitudini.

Ed arrivò Massimo: uno che parlava la mia stessa lingua, che si misurava con i miei stessi problemi, con le mie ansie che erano ansie della nostra generazione. Entrammo subito sulla stessa lunghezza d’onda.

Parlavamo moltissimo e di tutto: di cultura, di politica delle nostre storie personali, del nostro passato, delle nostre speranze: ininterrottamente in maniera alluvionale, passeggiando per ore intere, che volavano via leggere, per i luoghi di una città bellissima e sfregiata, che imparavano a scoprire ed amare insieme.

Incominciavamo a fare progetti accademici, di ricerca ma anche di vita. Massimo era dentro come appariva fuori: eternamente giovane, sempre se stesso, immodificabile con il passare degli anni, per l’immensa forza interiore che si portava dentro, per l’immensa calma, per il suo ottimismo mai facile, ma sempre supportato da una lucidità, da una capacità di analisi e di intuizione, impressionante.

Era intellettualmente intrigante, affascinante, ma lo era ancor più umanamente.

La sua personalità era il compendio, come lui con una certa compiacenza amava ripetermi, del rigoroso razionalismo sabaudo che proveniva dalla madre (che aveva perso da ragazzo, evento che aveva inciso profondamente sulla sua sensibilità) e della solarità, della sensibilità e della umanità siciliana che gli proveniva, attraverso il padre, dal nonno emigrato a Roma dopo il maremoto di Messina del 1908.

Per questo viveva Catania come un suo personale viaggio di ritorno verso ataviche radici; ogni volta che andavo a prenderlo all’aeroporto lo vedevo godere nel respirare l’odore di zagara, degli agrumeti, della brezza marina: riscopriva la grande letteratura siciliana, si poneva dall’interno per cercare di capire le grandi tragedie storiche e umane dei siciliani. Si poneva come uno di noi.

E tale era considerato da tutti coloro che lo conobbero in quel periodo: ha lasciato a Catania, decine di amici carissimi, colleghi, allievi giovani e meno giovani, impiegati dell’università, semplici conoscenti che hanno versato lacrime amare e sincere, alla sua morte, e sono ancora increduli.

E non se n’è mai andato, anche quando si è trasferito a Napoli nel novembre del 1986. Me lo ripeteva sempre in quei giorni, anche per consolarmi: se Catania fosse dietro la porta di casa non me ne andrei.

Tornava almeno due volte l’anno, nella città e nella Facoltà che considerava ancora una parte di sè; era membro del collegio dei docenti del dottorato di diritto del lavoro europeo. Venerdì sera doveva essere a CT a tenere una relazione e glielo hanno impedito. Fino all’anno scorso tra le mille cose che riusciva a fare, ha trovato pure il tempo di tenere una supplenza nella facoltà catanese: ne avevamo bisogno e non mi ha fatto ripetere due volte la richiesta. Ha posto una sola condizione: che non fosse retribuita.

La Facoltà di Catania era il suo retroterra, il suo personale ufficio studi, era il rapporto con il modello di università che sognava: stanziale, efficiente, tecnologicamente avanzata, aperta all’esperienza comparata, interattiva con gli studenti, e comunitaria.

Massimo era un intellettuale prestato alla politica, ma rimaneva un intellettuale, direi, in senso nobilmente gramsciano; non ha mai pensato il suo impegno a fianco del sindacato, delle istituzioni come una pratica a sé, separata dalla elaborazione intellettuale e dai suoi profondi convincimenti morali.

Di fronte ai miei dubbi su un suo eccessivo, recente coinvolgimento nella prassi, nell’operare in concreto, con un disarmante sorriso mi rispondeva che avevamo un’occasione storica, che non potevamo lasciarci sfuggire: di misurare cioè nel concreto incedere istituzionale, ed in una irripetibile stagione storica, la bontà e la plausibilità delle ipotesi teoriche che avevamo mille volte discusso insieme; ed aveva ragione.

Oltretutto riusciva in una cosa in cui pochi intellettuali prestati alla politica riescono a fare. Il suo rapporto con la politica ed il potere era lieve, in senso calviniano: non era mai succube, era granitico nella sua coerenza e nella sua autonomia, era flessibile ma resistente nei principi come un giunco, e questo atteggiamento, questa grande dignità, gli consentiva di non dovere chiedere nulla a chicchessia, di mantenere un grande distacco: Massimo veniva chiamato; non si è mai proposto, e non si è proposto neppure in quelle occasioni in cui era naturale che venisse chiamato, perché spettava a lui, perché era il migliore, e ciò, invece, non avveniva.

Massimo era un grande maestro, direi un maestro naturale, per vocazione: augurerei a tutti i giovani che intraprendono la carriera universitaria di averne uno come lui.

Aveva nei confronti della conoscenza e del sapere il senso del limite soggettivo e l’umiltà che solo i grandi intellettuali riescono ad avere. Faceva sempre leggere le sue cose a me e ad altri ed aspettava con impazienza le osservazioni, le reazioni, nel frattempo aveva già modificato due, tre volte la versione originale, spesso anticipando, di suo, i rilievi; lavorava sul testo con il cesello, non trascurava nulla; fino all’ultimo momento in bozze, era capace di stravolgere tutto. Aveva una gamma infinita di trucchi per prendere tempo con l’editore, per fare l’ultimo ritocco, l’ultimo miglioramento. Era un perfezionista intelligente.

Si esprimeva in una prosa che lo rispecchiava: semplice, chiara, incisiva; i suoi scritti anche i più impegnati, i più difficili, scorrono come ruscelli d’acqua.

Mi diceva commentando Norberto Bobbio: “vedi, i grandi intellettuali sono come lui; saper scrivere di cose importanti e decisive con una semplicità e una chiarezza che agli sprovveduti può sembrare banalità”. E nel frattempo lui praticava quest’insegnamento, e come!

Ma era rigoroso anche con gli altri, un lettore attento e severissimo mai accondiscendente, perché era rigoroso innanzitutto con se stesso. Era al contempo di una pazienza e disponibilità infinita e di una gentilezza estrema.

Esordiva dicendo: “l’articolo va bene”; ma chi lo conosceva, non si fidava, sapeva che lo diceva per incoraggiarti. Perché subito dopo, con una potenza di ragionamento che si affermava senza bisogno d’altro, ti smontava il saggio, l’articolo, pezzo per pezzo, così come faceva con i suoi, e ne metteva a nudo tutte le debolezze, tutti i difetti, anche quelli più riposti; ma poi non ti lasciava solo, in un mare di angoscia, davanti ai pezzi rotti del tuo giocattolo che immaginavi perfetto; ti aiutava passo passo a rimontarlo ed alla fine ti accorgevi che era senz’altro più ricco, più interessante, più chiaro ed anche lui era felice di questo.

Nelle parole che ci ha scritto il 25 dicembre del 1998 c’è tutto lui stesso: “un felice 1999, in cui l’aspra disciplina della conoscenza sappia accordarsi all’armonia profonda della vita (parole mie, sull’onda di imprecisate riminiscenze)” . Massimo…

E non trascurava nessuno, non si limitava alla sua scuola, ai suoi allievi o ai suoi stretti collaboratori: credo che ci sia un’intera generazione di giovani e meno giovani giuslavoristi che abbia beneficiato degli insegnamenti e dei consigli di Massimo D’Antona. Era un patrimonio collettivo, apparteneva a tutti coloro che consideravano il magistero universitario, per l’aspetto più nobile e meno decadente: la libertà di pensiero, la curiosità intellettuale, il gusto della ricerca, la creatività come metodo e come pratica.

Massimo era un grande giuslavorista. L’itinerario della sua produzione è ampio, complesso, articolato, coerente. Ho visto la raccolta dei suoi articoli e saggi a partire dal 1972 di cui Olga gli aveva fatto omaggio, credo, per il suo cinquantesimo compleanno: non la conoscevo e mi ha fatto impressione. Niente è fuori posto. Nessun tema è trascurato.

Conosco uno per uno quei pezzi, ne conosco la storia interna, il momento, l’occasione, il contesto in cui furono pensati e scritti, ma visti, tutti insieme, in sequenza cronologica, sono impressionanti: non è soltanto il personale itinerario culturale di un autore.

Attraverso quelle pagine, e nelle altre contenute nelle decine di volumi collettanei che ha curato, c’è la storia sistematica di una disciplina che ha contribuito a cambiare, a plasmare: c’è la storia del diritto del lavoro italiano di un trentennio. Abbiamo l’obbligo morale ed intellettuale di rifletterci, di tornarci su; è un immenso patrimonio di pensiero, e di insegnamenti morali che va valorizzato.

Dicono che chi l’ha ucciso lo seguiva da presso: non lo so, spetta agli inquirenti stabilirlo. So solo che quando ho letto il passo del comunicato delle BR in cui si diceva che Massimo “contribuiva ad attuare i nuovi indirizzi che devono operare aggirando i vincoli costituzionali”, mi sono venuti i brividi; nella sua vecchia borsa di cuoio, a cui era affezionato perché era particolarmente capiente, e che è stata l’ultima simbolica difesa di un inerme uomo di cultura contro la violenza vigliacca delle armi da fuoco, c’era probabilmente la versione finale, appena terminata ed ancora inedita, del suo saggio sul “Quarto comma dell’art. 39 della Costituzione oggi,” confezionato per gli scritti in onore di Gino Giugni; il saggio si occupava proprio di come superare i vincoli costituzionali, a quadro normativo immutato, per riformare la rappresentanza sindacale.

Sarà una coincidenza, ma il contenuto di quell’articolo non era certo noto a molti.

Tutto potevo immaginare nella mia vita tranne di dover commemorare la memoria di Massimo; hanno ragione Olga e Valentina: ha lasciato immensamente soli e vuoti, senza più punti di riferimento, tutti coloro che hanno avuto l’onore, il privilegio, di condividere qualcosa al suo fianco.

Addio Massimo.

Prof. Bruno Caruso
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Massimo D’Antona

Spetta a me l’ingrato e doloroso compito di ricordare Massimo D’antona, e lo ricordo con profonda commozione perchè mi trovo ad avere incrociato la sua vita in almeno tre punti di snodo: Massimo come collega, Massimo col quale ha condiviso idee politiche così come una profonda affinità culturale, e infine Massimo come amico. Tre condizioni che mi inducono a parlarne con grande commozione, tre condizioni che si sono intrecciate fortemente a definire una profonda ricchezza umana; ma su di esse prevale in modo netto la passione dello studioso e del professore universitario.

In tutte le qualità che ho prima elencato, in tutte le aree di esperienza a cui ha fatto riferimento, una netta preferenza venne infatti segnata dalla qualità di studioso. Fui membro della commissione di concorso per la cattedra e questo fu l’avvio dell’esperienza di un grande studioso e di un grande professore.

Al momento della scomparsa stampa e mass media ci hanno illustrato, giustamente, i grandi meriti di Massimo, ma non hanno sufficientemente posto in rilievo quello che fu di gran lunga prevalente, e cioè lo studioso, professore all’Università di Catania, di Napoli e successivamente a quella di Roma.

Massimo D’Antona fu partecipe intenso della vita Accademica. Ma si segnalò soprattutto per l’opera scientifica: dalla monografia sulla reintegrazione del posto di lavoro, tema difficile che egli affrontò con semplicità e grande equilibrio nella trattazione, e nel prosieguo di tutta la sua attività scientifica; mi è poi caro menzionare uno splendido articolo che dimostrò una profonda conoscenza del problema del metodo.

Massimo fu, senza enfasi, un giurista che operava già nella conoscenza del nuovo secolo. Gli studi sul mercato del lavoro e sul diritto comunitario, sui vari momenti del rapporto di lavoro, sui rapporti atipici segnarono una delle fasi più importanti della sua attività scientifica. Mi è particolarmente gradito ricordare che alcuni di questi studi furono pubblicati nella rivista scientifica di cui sono direttore.

Ma a queste attività di ricerca si accompagnò un intensa partecipazione all’attività legislativa. Nel collegamento fra interpretazione della legge e dell’attività contrattuale si realizza una figura compiuta di giurista che non solo si appaga nel momento interpretativo, ma intende procedere oltre, ponendo in esse una più diretta partecipazione al processo legislativo. Se mi è consentito un modesto paragone, non posso fare a meno di rilevare che nella personalità di Massimo si realizzavano, e lo ripeto con tutta modestia, le tracce di una simbiosi, o di qualcosa di analogo, tra alcune esperienze o modi di essere che ci univano personalmente e con le nostre rispettive scuole.

Mi è caro ricordare questi aspetti soprattutto ora che il filo si è spezzato. Cercammo tutti e due, e ne parlo anche a nome dei nostri allievi, gli estremi d’un pensiero comune, orientato ad un diritto del lavoro che voleva creare il diritto e non solo commentarlo. La trama s’è spezzata. Io stesso non sono più portatore di questa continuità ed è per questo che rivolgo il messaggio a quanti sono stati nostri allievi con la certezza che alcuni, molti di essi siano in grado di intendere e fecondare la validità del messaggio comune.
Prof. Mattia Persiani
Oggi siamo tutti emozionati per la scomparsa di Massimo D’Antona

Profonda è la commozione per la morte di Massimo D’Antona che, con crudele repentinità, ci costringe a fare a meno delle sue generose qualità umane.

Alla commozione si aggiunge la consapevolezza, per certi versi più dolorosa, di aver perduto, con Massimo D’Antona, un protagonista dei nostri studi che ha dato un contributo determinante alla rifondazione, in atto, del diritto del lavoro.

Massimo D’Antona è stato un protagonista perché ha saputo coniugare le sue notevoli doti di uomo di scienza con un costante impegno politico.

Doti di studioso sicuramente attestate dai numerosi e importanti scritti che, con rigore di metodo e sempre con raffinato tecnicismo, hanno segnato, se non preceduto, e, comunque, hanno consolidato i momenti più significativi dell’evoluzione del diritto del lavoro degli ultimi venti anni.

Impegno politico che, specialmente negli ultimi tempi, lo ha portato anche ad assumere una esplicita, ma, come è stato detto, discreta veste istituzionale.

E le sue doti di studioso, alimentate da una profonda onestà intellettuale, hanno costituito la base del suo impegno politico, mentre questo impegno ha, a sua volta, caratterizzato le sue scelte di studioso.

E’ stato detto che Massimo D’Antona era un uomo di mediazione, sia pure, ad alto livello.

Non mi sembra che questa definizione possa essere condivisa.

Certo, Massimo D’Antona, nelle posizioni istituzionali che ha ricoperto, ha avuto anche occasione di svolgere una equilibrata ed apprezzata opera di mediazione.

Ma non è la mediazione ad aver caratterizzato la sua opera di intellettuale e di studioso.

Come scienziato, Massimo D’Antona non ha mai ricercato il consenso di tutte le parti.

Le sue scelte, come è necessario per un intellettuale, sono sempre state precise scelte di campo: egli ha sempre proposto interpretazioni della legge che consentivano una più intensa ed effettiva tutela di chi lavora. E che queste interpretazioni siano state proposte con rigorosa coerenza di metodo, e quindi con equilibrata consapevolezza, non significa affatto che comportassero ipotesi di mediazione. Anzi, proprio quelle interpretazioni hanno finito per alimentare il dibattito necessario anche al progresso della scienza giuslavoristica.

Allo stesso modo, non può essere considerata opera di mediazione il privilegio che Massimo D’Antona ha costantemente assegnato anche ai presupposti di un più ordinato processo produttivo, inteso quest’ultimo come valore della comunità civile e condizione necessaria per la effettiva ed equilibrata realizzazione di tutti i valori costituzionali.

La scelta del patto sociale e della concertazione; la scelta del rafforzamento di un sindacato che possa sintetizzare una vera e forte investitura della base con una adeguata centralizzazione del potere; la scelta di una più effettiva tutela dei diritti costituzionalmente protetti nello sciopero dei pubblici servizi essenziali; la scelta dell’abolizione di un welfare risarcitorio e della sua sostituzione con il miglioramento delle possibilità offerte dal mercato del lavoro: non sono scelte di mediazione, nemmeno dal punto di vista politico.

Con quelle scelte, infatti, se pure presuppongono il metodo della mediazione, non si propone una mediazione, intesa come compromesso, tra gli interessi delle imprese, gli interessi dei lavoratori occupati e di quelli inoccupati e disoccupati.

Quelle scelte, nella loro concretezza, tendono, se mai, a soddisfare l’interesse pubblico all’ordinato svolgimento del processo produttivo, del quale già è stato fatto cenno, e, al tempo stesso e in una ancor più ampia prospettiva, anche l’esigenza fondamentale di un ordinato svolgimento della vita civile.

Di tali scelte, Massimo D’Antona ha saputo individuare le coerenti motivazioni culturali e, soprattutto, i riferimenti di tecnica del diritto che le sorreggono.

Ed è per questo che alla comunità scientifica dei giuslavoristi mancherà il contributo di Massimo D’Antona, essendogli stato impedito di continuare a concorrere al progresso dei nostri studi e delle nostre ricerche.

Resta il patrimonio di quanto già ci ha dato e il rimpianto di non averlo più tra noi.

Prof. Gino Giugni

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Io ho conosciuto Massimo D’Antona nel sindacato, in CGIL.

Lui ha lavorato molto con la CGIL, con CGIL CISL UIL, con le forze sociali più in generale, per affermare le ragioni del patto, della concertazione, della ragionevolezza.

Lo ricordo per il suo contributo al sindacato: era un uomo di eccezionale dottrina e di eccezionale capacità di ascolto: fermo nelle sue idee, anche nelle più innovative; molte di esse hanno scosso un po’ di certezze, di tranquillità nel sindacato, ma aveva anche una grande capacità di ascolto per i problemi che queste idee evocavano.

Ciò di cui lui parlava era la vita delle persone, di milioni di persone e non è un caso che nei suoi saggi anche nei più tecnici si senta circolare la vita, la vita degli uomini e delle donne che stanno dietro alla disciplina del licenziamento e del reintegro, degli uomini e delle donne di cui si parla quando si affrontano i temi del diritto di sciopero e della rappresentanza.

Ha dato dei contributi eccezionali al sindacato.

Ne ricordo qualcuno tra i più significativi: la sua attenzione alle problematiche del diritto del lavoro europeo. Lui indicò con molto anticipo al sindacato la necessità di confrontarsi con una dimensione europea del lavoro, di uscire dal provincialismo, di uscire dalla specificità di un caso italiano che poteva sembrare appagante ma che ormai entrava in contraddizione con la nuova Europa, e con l’idea fermissima di un’Europa che non poteva restare l’Europa delle monete, ma doveva diventare uno spazio sociale di cui il nuovo diritto del lavoro poteva essere una componente determinante.

E poi ricordo la sua attenzione al diritto di sciopero che nasce come problema del sindacato, come conflitto con le persone in carne ed ossa che noi rappresentavamo insieme agli scioperanti e che entravano in contraddizione molto spesso con le forme più estreme di esercizio del diritto di sciopero. E poi – ha ragione il prof. Caruso a ricordarlo – l’attenzione alla rappresentanza, le problematiche della rappresentanza venivano affrontate proprio nella logica di attuazione e compimento dello spirito della Costituzione.

E le questioni del rapporto di lavoro pubblico rappresentavano un modo essenziale per costruire un’Europa moderna, attenta ai diritti ed ai bisogni delle persone, capace di costruire anche nel pubblico uno spazio di carriera, di professionalità, di crescita commisurata non al mercato, ma alle esigenze, ai bisogni dei cittadini utenti.

Ecco, erano queste le ragioni, questi i problemi concreti che lo portavano ad essere un sostenitore della logica del patto e della logica della concertazione. Era convinto che proprio la globalizzazione più che il mutare degli scenari richiedeva per i più deboli la necessità di regole nuove. Perché il cambiamento senza regole è un cambiamento che spesso si ripercuote proprio sulle persone più povere, sui più diseredati.

E voglio ricordare in conclusione un altro suo contributo di grande lena: l’attenzione nuova da dedicare alla persona che lavora. Vorrei riprendere proprio una sua frase in cui “invitava il sindacato e il diritto del lavoro a dare più attenzione” – sono parole sue – “al lavoratore concreto in carne ed ossa, al suo progetto di lavoro e di vita, più che al lavoro massificato di cui per lo più ci parlano oggi leggi e contratti”: l’attenzione alla persona.

In quel lavoro concreto Massimo D’Antona vedeva quasi una nuova utopia, un nuovo compito per il sindacato, la capacità di ricollegare la difesa del valore di mercato del lavoro, la quantità del lavoro, alla sua qualità, a quello che significa per la persona in carne ed ossa che lavora: riconnettere il valore di mercato del lavoro alla soddisfazione, alla motivazione, alla realizzazione di sè che una persona nel lavoro può trovare.

Un’utopia che mi ricorda l’operaio specializzato Faussone nel libro “La chiave a stella” di Primo Levi, quando ad un certo punto gli chiedono che cos’è la felicità, risponde che non sa che cos’è la felicità, ma che “fare un lavoro che ti piace, farlo bene è la cosa che si avvicina di più”. Ecco, Massimo D’Antona era una persona che faceva un lavoro che gli piaceva, e lo faceva molto bene, dava un’idea di grande serenità e di grande felicità. Da questo punto di vista uccidere una persona felice è un crimine ancora più grave e più pesante. Grazie.

Dott. Daniele Ranieri

(da www.dirittodellavoro.it)