La nuvola di smog

Un suggerimento per una lettura domenicale

La nuvola di smog (1958) di Italo Calvino

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Era un periodo che non m’importava niente di niente, quando venni a stabilirmi in questa città. Stabilirmi non è la parola giusta. Di stabilità non avevo alcun desiderio; volevo che intorno a me tutto restasse fluido, provvisorio, e solo così mi pareva di salvare una mia stabilità interiore, che però non avrei saputo spiegare in che cosa consistesse. Perciò, quando, attraverso una catena di raccomandazioni, mi fu offerto un posto di redattore del periodico «La Purificazione», venni qui a cercare alloggio. Per uno appena sbarcato dal treno, si sa, la città è tutta una stazione: gira gira e si ritrova in vie sempre più squallide, tra rimesse, magazzini di spedizionieri,caffè col banco di zinco, camion che gli soffiano in faccia getti puzzolenti, e cambia continuamente di mano la valigia, si sente le mani gonfie, sudice, la biancheria appiccicata addosso, il nervoso, e tutto quello che vede è nervoso, frantumato.La camera ammobiliata che faceva per me la trovai proprio in una di queste vie;agli stipiti del portone c’erano due grappoli di cartelli, pezzi di scatole da scarpe appesi a spaghi, con l’avviso delle camere da affittare scritto a rozzi caratteri e le marche da bollo in un angolo. Io che ogni tanto mi fermavo per cambiare di mano la valigia, vidi i cartelli ed entrai. In ogni scala, a ogni piano di quel casamento c’era un paio d’affittacamere; suonai al primo piano della scala C. Era una camera qualsiasi, un po’buia perché dava nel cortile per una portafinestra, e ci s’entrava di lì, per un ballatoio dalla ringhiera rugginosa, così restava indipendente dal resto dell’alloggio, ma prima si doveva passare per un seguito di cancelletti chiusi a chiave; la padrona, signorina Margariti, era sorda, e temeva giustamente i ladri. Non c’era bagno; il gabinetto era sul ballatoio, in un casotto di legno; in camera c’era un lavabo con l’acqua corrente, senza impianto d’acqua calda. Ma insomma, cosa andavo cercando? L’affitto mi conveniva, anzi era l’unico possibile, perché di più non potevo spendere e non avrei trovato a meno; e poi doveva esser tutto provvisorio e volevo che questo apparisse chiaro anche a me stesso. – Sì, sì, la prendo, – dissi alla signorina Margariti che credette avessi chiesto se ci faceva freddo e mi mostrò la stufa. Ormai avevo visto tutto e volevo lasciare lì i bagagli e uscire. Ma prima m’avvicinai al lavabo e misi le mani sotto il rubinetto; da quando ero arrivato avevo voglia di lavarmele, ma mi diedi solo una sciacquata perché mi seccava aprire la valigia per cercare il sapone. – Oh, perché non me l’ha detto? Le porto subito la salvietta! – disse la signorina Margariti;corse di là e tornò con un asciugamani stirato che depose sulla spalliera della sedia. Io mi portai anche un po’ d’acqua al viso, per rinfrescarmi; mi sentivo fastidiosamente non pulito; poi mi strofinai con l’asciugamani.

Da quel gesto la padrona finalmente capì che intendevo fissare la camera. – Ah, la prende! la prende! Bene, vorrà cambiarsi, disfare la valigia, faccia pure il suo comodo,qua c’è l’attaccapanni, dia qui a me il cappotto! Non mi lasciai sfilare il soprabito; volevo uscire subito. Mi preoccupai soltanto di dirle che avevo bisogno d’uno scaffale: doveva arrivarmi una cassa di libri, quel po’ di biblioteca che ero riuscito a tenere insieme nella mia vita squinternata. Stentai a farmi capire dalla sorda; alla fine mi condusse di là,nelle sue stanze, davanti a un piccolo étagère dove teneva i suoi cestini da lavoro, scatole di rocchetti, roba da aggiustare e modelli di ricami; mi disse che l’avrebbe sgombrato e trasportato nella mia stanza. Uscii. Il periodico «La Purificazione» era l’organo d’un Ente, e io dovevo presentarmi lì per stabilire quel che avevo da fare. Lavoro nuovo, città diversa, fossi stato più giovane o mi fossi aspettato di più dalla vita, m’avrebbero dato slancio e contentezza;adesso no, non sapevo vedere che il grigio, il misero che mi circondava, e cacciarmici dentro, non tanto come se vi fossi rassegnato, ma addirittura come se mi piacesse, perché ne traevo la conferma che la vita non poteva essere diversa.Perfino le vie che dovevo percorrere, le sceglievo così, le più secondarie e strette e anonime, anche se mi sarebbe stato facile passare per quelle con le vetrine eleganti e i bei caffè; ma mi dispiaceva perdere l’espressione dei visi logori dei passanti, l’aria striminzita dei ristoranti a buon mercato, lo stantio delle bottegucce, e anche certi rumori propri delle vie strette: i tram, le frenate dei furgoncini, lo sfriggere dei saldatori nelle piccole officine dei cortili: tutto perché quei logorii e stridori esterni m’impedivano di dar troppa importanza ai logorii e stridori che mi portavo dentro io. Invece, per raggiungere quell’indirizzo, dovetti a un certo punto entrare in una zona tutta diversa, signorile, verdeggiante, antiquata, poco frequentata da veicoli nelle vie secondarie, abbastanza spaziosa nei grandi viali e controviali perché il traffico vi scorresse senza congestione né frastuono. Era autunno; qualche albero era d’oro. Il marciapiede non seguiva più muri di case ma cancelli, e di lì erano siepi, aiole, vialetti di ghiaia, che circondavano edifici tra il palazzo e la villa, dalle architetture ornate. Avvertivo adesso uno spaesamento diverso, perché non trovavo più cose in cui riuscissi a riconoscermi come prima, o a decifrare l’avvenire. (Non che io creda ai segni, ma per uno che è nervoso, in luoghi nuovi, ogni cosa che vede è sempre un segno.) Ero un po’ disorientato, dunque, quando entrai negli uffici di quell’Ente,diversi da come me li ero immaginati, perché erano saloni d’un palazzo gentilizio, con specchiere e consolle e camini di marmo e tappezzerie e tappeti(ma il mobilio vero e proprio invece era normale fornitura d’ufficio novecento,e l’illuminazione era del tipo più moderno, con i tubi).

Insomma, io adesso mi trovavo in soggezione per aver fissato quella camera così brutta e buia; tanto più quando venni introdotto nello studio del presidente, l’ingegner Cordà, che subito m’accolse con un’espansività esagerata, trattandomi da pari a pari, non solo come prestigio sociale e gerarchico – il che era già una situazione difficile da sostenere – ma soprattutto pari a lui come competenza e interesse nei problemi di cui l’Ente e il giornale «La Purificazione» si occupavano. Io che,a esser sinceri, credevo che fosse tutta una storia messa su tanto per fare, da parlarne strizzando l’occhio, e avevo accettato quel lavoro come un lavoro purchessia,adesso dovevo far la parte di quello che non ha mai pensato ad altro in vita sua. L’ingegner Cordà era un uomo sulla cinquantina dall’aria giovanile e coi baffi neri, cioè era uno di quella generazione che nonostante tutto è rimasta con l’aria giovanile e i baffi neri, tipi con cui non ho mai avuto nulla da spartire. Tutto in lui,discorsi, aspetto esteriore – vestiva di grigio, impeccabile, camicia d’un candore perfetto -, gesti – muoveva una mano con la sigaretta tra le dita -, spirava efficienza, facilità, ottimismo, spregiudicatezza. Mi mostrò i numeri de «La Purificazione» che erano usciti fin allora, messi insieme da lui (che ne era il direttore) e dal capufficiostampa dell’Ente, dottor Avandero (me lo presentò;uno di quei tipi che parlano come fosse scritto a macchina). Erano pochi numeri, assai magri, e si vedeva che non erano fatti da gente del mestiere. Per quel poco che m’intendevo di come si fanno i giornali, trovai il modo di dirgli- senza far critiche, s’intende – come l’avrei fatto io, le modificazioni tecniche che avrei apportato. M’era venuto d’usare anch’io quello stesso tono di praticità, di sicurezza dei propri risultati; e m’accorsi con soddisfazione che ci intendevamo. Con soddisfazione: perché io più facevo l’efficiente e l’ottimista più pensavo a quella camera d’affitto misera, a quelle vie squallide, a quel senso di rugginoso e d’attaccaticcio che mi portavo addosso,al mio non importarmene niente di niente, e mi pareva di fare un gioco di prestigio, di stare trasformando in un ammasso di briciole sotto gli occhi dell’ingegner Cordà e del dottor Avandero tutta la loro efficienza tecnico industriale, e loro non se ne accorgevano, e Cordà annuiva tutto entusiasta. – Benissimo, allora senz’altro lei domani, siamo intesi, e intanto, – mi diceva Cordà, -perché sia aggiornato… – e voleva darmi da leggere gli atti del loro ultimo congresso. – Ecco, – mi condusse davanti a uno scaffale dov’erano disposte in tante pile le copie ciclostilate delle relazioni. – Vede? Prenda questa, e quest’altra, e questa ce l’ha già? Ecco, conti lei se ci son tutte, – e così dicendo prendeva in mano quei fogli; fu allora che io vidi da essi sollevarsi una piccola nube di polvere, e sulla loro superficie appena toccata disegnarsi l’orma delle dita. Ora l’ingegnere, sollevando i fogli, cercava di dar loro una sbattutina, ma appena appena, come non volesse ammettere che erano impolverati,e ci soffiava a fior di labbra.

Stava attento a non mettere le dita sulla prima pagina d’ogni relazione, ma bastava che la sfiorasse con la punta d’un’unghia perché un serpentello bianco rimanesse tracciato su quello che ora appariva un fondo grigio, ricoperto com’era d’un velo minutissimo di polvere. Però le di tagli restavano sporche lo stesso, si vede, e cercava di pulirsele piegandole sul palmo e muovendo i polpastrelli, col risultato di riempirsi di polvere tutta la mano. Allora istintivamente abbassava le mani ai fianchi dei pantaloni di flanella grigia, e si tratteneva appena in tempo, le risollevava, e così stavamo tutti e due, muovendo i polpastrelli a mezz’aria e passandoci quelle relazioni,prendendole appena appena per il margine come fossero foglie d’ortica, e intanto continuavamo a sorridere, a sorridere, ad annuire, compiaciuti, a dire:- Oh, sì, un congresso interessante! Oh, sì, una buona attività! – ma io m’accorgevo che l’ingegnere si sentiva sempre più nervoso e insicuro, e non riusciva a sostenere il mio sguardo trionfante, il mio sguardo trionfante e disperato, perché tutto confermava d’essere veramente come io pensavo. Tardavo a prender sonno. La camera, apparentemente tranquilla, di notte era raggiunta da suoni che imparai a decifrare a poco a poco. A tratti si sentiva salire una voce deformata da un altoparlante, che dava brevi avvertimenti incomprensibili;se m’ero assopito mi svegliavo credendo d’essere in treno perché il timbro e la cadenza erano quelli degli altoparlanti delle stazioni, come affiorano la notte nel dormiveglia del viaggiatore. Fattoci l’orecchio, riuscii ad afferrare le parole. «Due raviolini al sugo… – dicevano. – Una bistecca ai ferri… Una costata…» La camera era sopra le cucine della birreria «Urbano Rattazzi», che faceva servizio di tavola calda anche dopo mezzanotte: dal banco i camerieri trasmettevano le ordinazioni ai cuochi scandendole in un microfono interno. Un confuso vocio saliva spesso dalla birreria e talora il coro intonato da qualche comitiva. Ma era un buon locale, un po’caro, frequentato da un pubblico non volgare: erano rare le notti in cui un ubriaco dava in smanie e rovesciava i tavoli carichi di bicchieri. Stando a letto i rumori della veglia altrui arrivavano attutiti, senza brio né colore come attraverso una nebbia; la voce nell’altoparlante: «Un contorno di patatine fritte… Arrivano quei raviolini?»era d’una tristezza nasale e rassegnata. Verso le due e mezzo la birreria «Urbano Rattazzi» calava le saracinesche; i camerieri, alzato il bavero dei soprabiti sopra le giacchette tirolesi dell’uniforme, uscivano dalla porta della cucina e attraversavano il cortile chiacchierando. Verso le tre un frastuono di ferraglie invadeva il cortile: gli sguatteri trascinavano fuori i pesanti bidoni da birra vuoti inclinandoli sugli orli e facendoli ruotare e sbatacchiandoli; poi si mettevano a sciacquarli. Erano gente, questi sguatteri, che se la prendeva calma, certo essendo pagati a ore, e lavoravano sbadati, fischiando e con gran fracasso di quei fusti di zinco, per un paio d’ore. Verso le sei veniva il camion della birra a portare i bidoni pieni e a ritirare i vuoti; ma già nella sala della «Urbano Rattazzi» erano cominciati i rumori delle lucidatrici che pulivano i pavimenti per la giornata che ricominciava.
Nei momenti di silenzio, in piena notte, di là, dalle stanze della signorina Margariti, esplodeva nel buio un parlare fitto fitto, frammisto di risatine, di domande e risposte, tutte d’una sola voce femminile in falsetto; la sorda non sapeva distinguere l’atto del pensare da quello del dire ad alta voce e a ogni ora del giorno o anche svegliandosi nel cuor della notte, ogni volta che s’infervorava in un pensiero, in un ricordo, in un rimorso, si metteva a parlare da sola,modulando le battute di dialoghi tra diversi interlocutori. Per fortuna questi soliloqui, data la concitazione, erano incomprensibili; eppure comunicavano il disagio d’essere messi a parte di intimità indiscrete. Di giorno,quando entravo in cucina a chiederle un po’d’acqua calda per la barba (a bussare non sentiva e dovevo entrare nel raggio del suo sguardo perché s’accorgesse della mia presenza), mi capitava di sorprenderla che parlava allo specchio con sorrisi e smorfie, o seduta su una sedia con lo sguardo nel vuoto,che si raccontava qualche storia; allora si ricomponeva d’improvviso e diceva:- Uh! stavo parlando al gatto, – oppure: – Scusi, non l’avevo vista: stavo pregando, – (era molto devota) ma il più delle volte non si rendeva conto d’esser stata intesa. Che molti dei suoi discorsi fossero rivolti al gatto, era vero. Riusciva a fargli dei discorsi di ore, e certe sere la sentivo continuare a fare «pcc… pcc… micio micio micio» alla finestra, aspettando che tornasse dai suoi giri per ballatoi,tetti e terrazzi. Era un gatto striminzito e selvatico, d’un pelo nerastro che ogni volta che tornava a casa era grigio, come se assorbisse tutta la polvere e la fuliggine del quartiere. Da me scappava appena mi vedeva di lontano e si nascondeva sotto qualche mobile, come se l’avessi per lo meno picchiato,sebbene neanche gli badassi. Ma in camera mia, mentre non c’ero, doveva entrarci: la camicia bianca lavata che la padrona disponeva sul marmo del cassettone la trovavo sempre con le impronte fuligginose delle sue zampe sul colletto e sul petto. Mi mettevo a gridare imprecazioni, che presto interrompevo perché la sorda non m’avrebbe sentito, e andavo di là a metterle il disastro sotto gli occhi. Si rammaricava, cercava il gatto per punirlo; mi spiegava che certo quando lei era entrata in camera mia per portare la camicia il gatto l’aveva seguita senza che lei s’accorgesse; così l’aveva chiuso dentro e la bestia aveva sfogato la sua rabbia di non poter uscire saltando sopra il cassettone. Avevo solo tre camicie e dovevo darle a lavare continuamente perché – non so se fosse la vita ancora non ben assestata che facevo, l’ufficio da mettere in ordine – dopo mezza giornata erano già sporche. Così mi toccava sovente d’andare in ufficio con le orme del gatto sul colletto. Alle volte trovavo le orme anche sul guanciale. Doveva esser rimasto chiuso dopo aver seguito la signorina Margariti che la sera veniva «a far la rovescina» al mio letto. Non c’era da meravigliarsi che il gatto fosse così sporco: bastava posare una mano sulla ringhiera del ballatoio per ritirarla striata di nero.

Ogni volta che rincasavo, a manovrare con le chiavi attorno a quattro serrature o lucchetti, e poi a ficcare le dita tra i listelli della persiana per aprire e richiudere la portafinestra, mi sporcavo le mani in modo che entrando dovevo tenerle sollevate per non lasciare impronte e andare subito al lavabo. Con le mani lavate e asciugate mi sentivo subito meglio, come se ne avessi riacquistato l’uso, e mi mettevo a toccare e a spostare quei pochi oggetti che c’erano intorno. La signorina Margariti, devo dire, teneva la camera abbastanza pulita; spolverare, spolverava tutti i giorni; però alle volte, a mettere le mani incerti punti dove lei non arrivava (era di statura molto bassa, e corta di braccia) le ritraevo tutte vellutate di polvere e dovevo tornare subito a lavarmele. Il problema più grave erano i libri: li avevo messi in ordine su quell’étagère ed erano essi soltanto a darmi l’impressione che quella fosse la mia casa; l’ufficio mi lasciava del tempo libero e volentieri avrei passato qualche ora in camera a leggere. Però i libri si sa quanta polvere assorbano: ne sceglievo uno allo scaffale, ma prima d’aprirlo dovevo strofinarlo con un cencio tutt’intorno, sul taglio, e poi sbatterlo per bene: ne usciva un polverone. Allora mi rilavavo le mani e poi mi buttavo sul letto a leggere. Ma sfogliando il libro, è inutile,mi sentivo sui polpastrelli quel velo che diventava sempre più soffice e spesso e mi guastava il piacere della lettura. M’alzavo, tornavo al lavabo, mi davo ancora una sciacquata alle mani, ma adesso mi sentivo impolverato anche sulla camicia, sui vestiti. Avrei voluto rimettermi a leggere ma ora avevo le mani pulite e mi dispiaceva sporcarmele di nuovo. Così decidevo d’uscire. Naturalmente,tutte le operazioni dell’uscita: la persiana, la ringhiera, le serrature, mi riducevano le mani peggio di prima, ma ora dovevo tenermele così fino a che non arrivavo all’ufficio. In ufficio, appena arrivato, correvo alla toilette a lavarmele; l’asciugamani dell’ufficio però era tutto nero d’impronte; facevo per asciugarmi e già mi risporcavo. I primi giorni di lavoro all’Ente li impiegai a mettere in ordine la mia scrivania. Il tavolo che m’era stato assegnato era infatti carico di roba: fogli, corrispondenza,cartelle, vecchi giornali; insomma, era stato fin allora una specie di tavolo di sgombero su cui venivano posate le cose che non avevano un posto preciso. Il mio primo impulso era stato quello di far piazza pulita: ma poi avevo visto che c’era del materiale necessario per il giornale e altre cose che dovevano avere un certo interesse e che mi ripromisi d’esaminare con più calma. Insomma finii per non togliere niente dal tavolo e invece aggiunsi molta roba, però non in disordine, anzi cercavo di tener tutto ordinato. Si capisce che le carte che c’erano prima erano molto polverose e comunicavano la loro polverosità anche alle carte nuove.

Io poi, molto geloso del mio ordine, avevo dato disposizione alle donne della pulizia che non toccassero nulla, e questo faceva sì che un po’ di polvere si depositasse da un giorno all’altro sulle carte, specie sul materiale di cancelleria, carta da lettere, buste intestate eccetera, che nel giro di pochi giorni prendevano un aspetto vecchio e sporco e dava noia a toccarle. I cassetti,anche lì, la stessa storia! C’erano dentro stratificate cartacce polverose di decenni prima, che testimoniavano la lunga carriera di quella scrivania attraverso diversi uffici pubblici e privati. Qualsiasi cosa facessi su quel tavolo, dopo pochi minuti sentivo il bisogno d’andarmi a lavare le mani. Il mio collega,dottor Avandero, aveva invece le mani – manine gracili ma dotate d’una certa durezza nervosa – sempre pulite, molto curate, con le unghie lustre, nette e uniformemente aguzze. – Ma lei, scusi,- provai a chiedergli, – non trova, dopo un po’, a stare qui, le mani, è vero,ha visto come ci si sporca? – Probabilmente,dottore, – rispose Avandero con la sua aria sempre compunta, – lei avrà toccato qualche oggetto o incartamento non perfettamente spolverato. Se mi permette di darle un consiglio, è sempre bene che il piano della scrivania sia lasciato completamente sgombro. Difatti, il tavolo di Avandero era sgombro, pulito, lucido, con solo la pratica che stava sbrigando in quel momento e la biro che teneva in mano. – È un’abitudine, -egli soggiunse, – cui il presidente tiene molto -. Difatti, l’ingegner Cordà l’aveva detto anche a me: il dirigente che tiene la sua scrivania completamente sgombra è quello che non lascia mai accumulare le pratiche, che avvia subito ogni problema alla soluzione. Ma Cordà in ufficio non c’era mai, e quando c’era si fermava un quarto d’ora, si faceva portare grandi fogli di grafici e di statistiche, dava veloci e generiche disposizioni ai suoi sottoposti, smistava le varie incombenze tra l’uno e l’altro senza preoccuparsi del grado di difficoltà di ciascuna, dettava rapidamente qualche lettera alla stenografa, firmava la corrispondenza in partenza, e via. Avandero no, Avandero stava in ufficio mattina e pomeriggio, aveva l’aria di lavorare moltissimo e di dare moltissimo lavoro alle stenografe e alle dattilografe, ma riusciva a non tenere mai un pezzo di carta sulla sua scrivania più di dieci minuti. Questa storia non m’andava proprio giù; cominciai a sorvegliarlo e m’accorsi che le carte, se sul suo tavolo si fermavano pochissimo, andavano poi subito a fermarsi da qualche altra parte. Una volta lo sorpresi che, non sapendo cosa fare d’alcune lettere che aveva in mano, s’avvicinava al mio tavolo (io ero andato un momento a lavarmi le mani) e le posava lì, nascondendole sotto una cartella. E poi, rapidamente, estraeva il fazzoletto dal taschino, si spolverava le dita e andava a sedersi al suo posto, dove la biro era posata parallela al margine d’un foglio immacolato. Potevo entrare tutt’a un tratto e fargli fare una brutta figura. Ma mi bastava aver visto, mi bastava sapere che le cose andavano così.

Dato che entravo in camera mia dal ballatoio, il resto dell’appartamento della signorina Margariti restava per me terra inesplorata. La signorina abitava sola,affittando due camere sul cortile, la mia e un’altra vicina, del cui inquilino conoscevo solo il pesante passo a notte tarda e di mattina presto (era un sottufficiale di polizia, appresi, e non si vedeva mai durante il giorno). Il resto dell’appartamento, che doveva essere piuttosto vasto, era tutto per lei. Qualche volta mi capitò di doverla cercare perché la chiamavano al telefono: lei non sentiva il campanello e finivo per andare io a rispondere; col ricevitore all’orecchio invece udiva abbastanza; e le lunghe telefonate con amiche della congregazione della parrocchia erano il suo svago. – Il telefono! Signorina Margariti! La vogliono al telefono! – gridavo inutilmente per l’appartamento e bussavo ancora più inutilmente alle porte. In questi giri mi resi conto dell’esistenza d’un seguito di stanze di soggiorno, salotti, tinelli, tutti ingombri d’un mobilio vecchiotto e pretenzioso, con abatjours e soprammobili e quadretti e statuine e calendari, ed erano stanze tutte in ordine, pulite, lustre di cera, con candidi pizzi sulle poltrone, senza neanche un granello di polvere. In fondo a una di queste stanze scoprivo finalmente la signorina Margariti, intenta a lucidare il parquet o a strofinare i mobili, con indosso una vestaglia stinta e in testa un fazzoletto. Indicavo in direzione del telefono, con violenti gesti; la sorda correva via e cominciava una delle sue interminabili chiacchierate, con inflessioni non dissimili da quando conversava col gatto. Io tornavo nella mia camera, e a vedere la mensola del lavabo o il paralume con un dito di polvere mi prendeva una gran rabbia: quella donna passava la giornata a tener lucide come specchi le sue stanze e da me non era buona a dare neanche un colpo di straccio. Andavo di là deciso a farle una scenata, a gesti e a smorfie; e la trovavo in cucina, e questa cucina era tenuta peggio ancora di camera mia: con l’incerato del tavolo logoro e macchiato, tazze sporche sul piano della credenza, le mattonelle sconnesse e annerite. E io restavo senza parola, perché capivo chela cucina era il solo luogo di tutta la casa in cui quella donna veramente vivesse, e il resto, le stanze adorne e continuamente spazzolate e incerate erano una specie di opera d’arte in cui lei riversava tutti i suoi sogni di bellezza, e per coltivare la perfezione di quelle stanze si condannava a non viverci,a non entrarci mai come padrona ma solo come donna di fatica, e il resto della giornata a passarlo nell’unto e nella polvere. «La Purificazione» era un quindicinale e aveva per sottotitolo «dell’Aria dal Fumo,dalle Esalazioni Chimiche e dai Prodotti della Combustione». Era l’organo dell’epauci, «Ente per la Purificazione dell’Atmosfera Urbana dei Centri Industriali». L’epauci era collegato con associazioni consorelle d’altre nazioni, che mandavano i loro bollettini e i loro opuscoli. Spesso si tenevano dei congressi internazionali, soprattutto sul grave problema dello smog.
Io non m’ero mai occupato di questioni del genere, ma sapevo che fare un giornale d’argomento specializzato non è difficile come sembra. Si seguono le riviste straniere, si traducono certi articoli, con quelle e con un abbonamento a un’agenzia di ritagli un notiziario è presto messo insieme; poi ci sono quei due o tre collaboratori tecnici che non mancano mai di mandare il loro articoletto,l’Ente da parte sua, per poco che funzioni, qualche comunicato o qualche ordine del giorno da comporre in neretto ce l’ha sempre; e c’è l’inserzionista che prega di pubblicare come articolo la descrizione d’un qualche suo nuovo brevetto. Quando poi c’è un congresso, gli si può dedicare almeno un numero intero, da cima a fondo, e ancora avanzano un certo numero di relazioni e resoconti che puoi continuare a smaltire nei numeri successivi, quando hai tre o quattro colonne che non sai come riempire. L’articolo di fondo spettava di regola al presidente. Ma l’ingegner Cordà, sempre molto occupato (era consigliere delegato di una serie d’industrie, e all’Ente poteva dedicare solo i ritagli di tempo) cominciò a incaricarmi di stenderlo io, su concetti che m’illustrò con energia e chiarezza. Gli avrei sottoposto il mio elaborato al suo ritorno. Viaggiava spesso, Cordà, perché i suoi stabilimenti erano sparsi un po’in tutto il paese; ma tra tante attività, la presidenza dell’epauci, puramente onorifica, era quella, mi disse, che gli dava più soddisfazione, «perché, – spiegò, – è una battaglia per motivi ideali». Io invece di motivi ideali non ne avevo né volevo averne; volevo solo fargli un articolo come piaceva a lui, per conservare quel posto, né migliore né peggiore di un altro, e continuare quella vita, né migliore né peggiore di tutte le altre vite possibili. Le tesi di Cordà le conoscevo («Se tutti seguissero il nostro esempio, la purezza atmosferica sarebbe già…») e le sue formule preferite(«Noi non siamo utopisti, sia ben chiaro, siamo persone pratiche le quali…») e avrei scritto come voleva lui, parola per parola. E che altro dovevo scrivere? Quel che pensavo io di testa mia? Un bell’articolo ne sarebbe venuto fuori, ve l’assicuro! Una bella visione ottimista d’un mondo funzionale e produttivo! Ma mi bastava capovolgere il mio stato d’animo (cosa che non m’era difficile perché era come un accanirmi contro me stesso) per ottenere lo slancio necessario a un articolo di fondo ispirato dal presidente. «Siamo alla soglia ormai della soluzione dei problemi delle scorie volatili, – scrivevo, -soluzione che tanto più affretterà il suo sicuro compimento, – e già vedevo la faccia compiaciuta dell’ingegnere, – quanto più al sempre fattivo impulso dato alla Tecnica dall’Iniziativa Privata, verrà incontro l’illuminata comprensione,- l’ingegnere a questo punto avrebbe alzato una mano, a sottolineare il mio scritto, – degli organi dello Stato, già tanto solleciti…» Lessi forte questo pezzo al dottor Avandero.

Le piccole mani ben curate su un foglio bianco nel centro della scrivania, Avandero mi guardava con la solita cortesia inespressiva.
– Be’, non le va? – gli chiesi. – Tutt’altro, tutt’altro… – s’affrettò a dire lui. – Ascolti il finale: «Contro le più catastrofiche profezie sulla civiltà industriale, noi riaffermiamo che non vi sarà (né d’altronde in effetti v’è mai stata)contraddizione tra un’economia in libera naturale espansione e l’igiene necessaria all’organismo umano, – ogni tanto guardavo Avandero, ma lui non alzava gli occhi dal foglio bianco, – tra il fumo delle nostre operose ciminiere e l’azzurro e il verde delle nostre incomparabili bellezze naturali…» Allora,cosa ne dice? Avandero stette un po’ a fissarmi coi suoi occhi atoni e con le labbra strette. – Ecco, effettivamente il suo articolo esprime molto bene, diciamo così, la sostanza ultima del fine che il nostro Ente si propone, è vero, con tutte le sue forze di raggiungere… – Uhm… -bofonchiai. Devo confessare che da un tipo cerimonioso come il mio collega m’aspettavo un’approvazione meno tortuosa. Presentai l’articolo all’ingegner Cordà, al suo arrivo, un paio di giorni dopo. Lo lesse con attenzione, me presente. Finì di leggere, mise in ordine i fogli, sembrava stesse ricominciando a leggerli da capo, invece disse: – Bene -. Stette un po’ a pensare, poi ripeté: – Bene -. Un’altra pausa e poi: – Lei è giovane-. Prevenne un’obiezione che io non intendevo fargli: – No, non è una critica,mi lasci dire. Lei è giovane, ha fiducia, vede lontano. Però, mi lasci dire, la situazione è seria, sì, più seria di quel che il suo articolo non lasci prevedere. Parliamoci da uomini: il pericolo d’inquinamento dell’aria delle grandi città è forte, abbiamo le analisi, la situazione è grave. Appunto perché grave, ci siamo noi per risolverla. Se non la risolviamo, anche le nostre città saranno soffocate dallo smog. S’era alzato e aveva preso a camminare avanti e indietro. – Noi non ci nascondiamo le difficoltà. Non siamo come altri, e proprio degli ambienti che più dovrebbero preoccuparsi, che invece se ne infischiano. O peggio: ci mettono i bastoni tra le ruote. Si piantò difronte a me, abbassò la voce: – Perché lei è giovane, forse crede che tutti siano d’accordo con noi. Invece no. Siamo in pochi. Attaccati da una parte e dall’altra. Sissignore. Da una parte e dall’altra. Eppure non disarmiamo.Parliamo ad alta voce. Agiamo. Risolviamo il problema. Questo vorrei sentire di più nel suo articolo, ha capito? Avevo capito perfettamente. L’accanimento a fingere opinioni opposte alle mie m’aveva portato troppo in là, ma adesso avrei saputo graduare l’articolo alla perfezione. Dovevo ripresentarlo all’ingegnere di lì a tre giorni. Lo riscrissi da cima a fondo. Per due terzi tracciai un quadro tetro delle città d’Europa divorate dallo smog, per un terzo invece contrapposi l’immagine d’una città esemplare,la nostra, linda, ricca d’ossigeno, dove una concentrazione razionale delle istanze produttive non andava disgiunta… eccetera.

Per concentrarmi meglio, scrissi l’articolo a casa, sdraiato sul letto. Un raggio di sole che scendeva di sbieco nel pozzo del cortile entrava dai vetri e lo vedevo attraversare nell’aria della stanza una miriade di granellini impalpabili. Il copriletto doveva esserne impregnato; ancora un poco e mi pareva si sarebbe ricoperto d’uno strato nerastro, come i listelli della persiana, come le ringhiere del balcone. Al dottor Avandero la nuova stesura, quando glie la feci leggere, mi parve non spiacesse.- Questo contrasto tra la situazione della nostra città e delle altre, – disse,- che lei avrà certamente impostato seguendo le disposizioni del presidente, è davvero ben riuscito. – No, no, non me l’ha detto l’ingegnere, è stata una trovata mia, – feci, un po’ seccato mio malgrado che il collega non mi credesse capace di nessuna iniziativa. La reazione di Cordà invece non me l’aspettavo. Posò il dattiloscritto sul tavolo e scosse il capo. – Non ci siamo capiti, non ci siamo capiti, – disse subito. Cominciò a darmi delle cifre sulla produzione industriale di questa città, sui quantitativi di carbone, di nafta che vi si bruciavano giornalmente, sulla circolazione dei motori a scoppio. Poi passò ai dati meteorologici, e per questi e per quelli fece un rapido confronto con le maggiori città europee del Nord. – Noi siamo una grande e nebbiosa città industriale, lei capisce: quindi lo smog c’è anche da noi, non c’è meno smog da noi che altrove. È impossibile sostenere, come pure altre città rivali del nostro stesso paese tentano di fare, che qui c’è meno smog che da loro. Questo lei può scriverlo ben chiaro, nell’articolo,deve scriverlo! Siamo una delle città in cui la situazione atmosferica è più grave, ma nello stesso tempo la città in cui si fa di più per essere all’altezza della situazione! Nello stesso tempo, lei capisce? Capivo, e capivo anche che non avremmo potuto capirci mai. Quelle facciate di case annerite,quei vetri opachi, quei davanzali a cui non ci si poteva appoggiare, quei visi umani quasi cancellati, quella foschia che ora col progredire dell’autunno perdeva il suo umido sentore d’intemperie e diventava come una qualità degli oggetti, come se ognuno e ogni cosa avesse di giorno in giorno meno forma, meno senso e valore, tutto quel che per me era sostanza d’una miseria generale, per gli uomini come lui doveva essere segno di ricchezza supremazia e potenza, e insieme di pericolo distruzione e tragedia, un modo per sentirsi investiti, a stare lì sospesi, d’una grandezza eroica. Rifeci una terza volta l’articolo. Andava bene, finalmente. Solo sul finale («Ci troviamo dunque di fronte a un problema terribile per il destino della società. Lo risolveremo?») trovò da ridire. – Non sarà troppo dubitativo? – chiese. – Non toglierà fiducia? La cosa più semplice era togliere l’interrogativo: «Lo risolveremo». Così, senza esclamativi: una calma sicurezza. – Però non sembrerà troppo pacifico? Una cosa d’ordinaria amministrazione? Si convenne diripetere la frase due volte. Una con l’interrogativo e l’altra senza. «Lorisolveremo? Lo risolveremo.»

Ma non era un rimandare la soluzione a un futuro indeterminato? Provammo a mettere tutto al presente. «Lo risolviamo? Lo risolviamo». Ma non suonava bene. Si sa come succede in uno scritto; si comincia a cambiare una virgola, e bisogna cambiare una parola, poi la costruzione d’una frase, e poi va tutto all’aria. Discutemmo mezz’ora. Proposi di mettere domanda e risposta con tempi diversi: «Lo risolveremo? Lo stiamo risolvendo». Il presidente fu entusiasta e da quel giorno la sua fiducia nelle mie doti non venne mai meno. Una notte misvegliò il telefono. Era lo squillo prolungato delle chiamate interurbane.Accesi la luce: erano quasi le tre. Già prima di decidermi ad alzarmi,slanciarmi nel corridoio, afferrare nel buio il ricevitore, e prima ancora, alprimo sussulto nel sonno, già sapevo che era Claudia. La sua voce sgorgava ora dal ricevitore e pareva venire da un altro pianeta, ed io con i miei occhi appena svegli avevo una sensazione come di scintillii, di barba gli,che erano poi invece le modulazioni della sua voce inarrestabile, quella drammatica concitazione che sempre lei metteva in ogni cosa che diceva, e che ora mi raggiungeva fin là, in fondo allo squallido corridoio della signorina Margariti. Mi resi conto di non aver mai dubitato che Claudia m’avrebbe ritrovato,anzi: di non aver aspettato altro per tutto questo tempo. Non accennava nemmeno a chiedermi cos’era stato di me fin allora, come mai ero finito lì, e neppure mi spiegò come m’aveva rintracciato. Aveva un monte di cose da dirmi,cose estremamente dettagliate e pur sempre vaghe, come sempre le sue, e che si svolgevano in ambienti per me ignoti e impraticabili. – Ho bisogno dite, presto, immediatamente. Vieni col primo treno… – Sai, qui ho un impiego… L’Ente… – Ah, forse vedi il commendator… Digli… – Ma no, sai, iosono soltanto… – Caro, partisubito, vero? Come dirle che rispondevo da un luogo pieno di polvere, che i listelli della persiana erano coperti d’una nera crosta sabbiosa, che sui miei colletti c’era l’orma d’un gatto, e che quello era l’unico mondo possibile per me, era l’unico mondo possibile al mondo, e il suo, di mondo, soltanto per un’illusione ottica poteva apparirmi esistente? Non mi sarebbe neanche stata a sentire, era troppo abituata a vedere tutto dall’alto e le circostanze meschine di cui era intessuta la mia vita era naturale le sfuggissero. Tutti i suoi rapporti con me di cos’altro erano frutto se non di questa sua superiore distrazione, per cui non era mai riuscita a rendersi conto che io ero un modesto pubblicista di provincia, senz’avvenire e senza ambizioni, e continuava a trattarmi come facessi parte dell’alta società di nobili, ricconi e artisti in cui s’era sempre mossa e nella quale, per un caso come ne succedono ai bagni, le ero stato presentato,un’estate.

Rendersene conto non voleva, perché sarebbe stato riconoscere d’essersi sbagliata: così continuava ad attribuirmi doti, autorità e gusti che ero ben lontano dall’avere; ma in fondo chi io fossi veramente era una questione di dettaglio, e lei per una questione di dettaglio non voleva essere smentita. Ora la sua voce era andata facendosi tenera, affettuosa: era quello il momento che io – pur senza confessarmelo – aspettavo, perché solo nell’abbandono amoroso tutto quel che ci rendeva diversi scompariva e ci ritrovavamo a essere solamente noi due,che non importava chi si fosse. Avevamo appena avviato uno scambio di parole amorose, quando alle mie spalle s’accese la luce dietro una porta a vetri es’udì un cupo colpo di tosse. Era la porta del coinquilino sottufficiale di polizia,proprio lì, a fianco del telefono. Istantaneamente abbassai la voce, ripresi la frase interrotta, ma ora che mi sapevo ascoltato un naturale riserbo mi faceva attenuare le espressioni amorose, finché non mi ridussi a un mormorio di frasi neutre e malintelligibili. La luce nella camera attigua si spense, ma dall’altro capo del filo cominciarono le proteste: – Cosa dici? Parla più forte! È tutto qui quel che hai da dirmi? – Ma non sono solo… – Come? Con chi sei? – No, senti, qui, sai, sveglio i coinquilini, è tardi… Ormai s’era adirata, non erano spiegazioni che voleva, voleva una mia reazione, un segno di calore da parte mia, qualcosa che bruciasse la distanza che ci separava. Ma le mie risposte s’erano fatte cautelative, querimoniose, rabbonitrici. – No, vedi,Claudia, non fare così, t’assicuro, ti supplico, Claudia, io… – Nella stanza del sottufficiale si riaccese la luce. Il mio discorso d’amore divenne un pigolio,a labbra schiacciate sul microfono. Nel cortile gli sguatteri rotolavano i fusti della birra. La signorina Margariti dal buio delle sue stanze attaccò un chiacchierio interrotto da brevi scoppi di risa, come se avesse visite. Il coinquilino scoppiò in un’imprecazione meridionale. Io ero a piedi nudi sulle piastrelle del corridoio e dall’altro capo del filo la voce appassionata di Claudia mi tendeva le mani e io cercavo di correrle incontro con la mia balbuzie ma ogni volta che stavamo per gettare un ponte tra noi dopo un momento andava in briciole e l’urto delle cose stritolava e smentiva a una auna tutte le parole d’amore. Da quella volta, il telefono prese a squillare nelle più diverse ore del giorno e della notte, e la voce di Claudia a irrompere fulva e screziata nell’angusto corridoio, con il balzo ignaro d’un leopardo che non sa di gettarsi in una trappola, e, siccome non lo sa, d’un altro balzo come se n’è venuto trova il varco per fuggire: e non s’è accorto di niente.

E io, tra sofferenza e amore e gioia e crudeltà, la vedevo mescolarsi a questo scenario di bruttezza e desolazione, all’altoparlante della «Urbano Rattazzi» che scandiva: «Una di cappelletti in brodo», alle scodelle sporche nell’acquaio della signorina Margariti, e mi pareva che ormai anche la sua immagine dovesse restarne marcata. Ma no, correva via sul filo intatta, senz’accorgersi di nulla, e io restavo ogni volta solo col vuoto della sua assenza. Alle volte Claudia era allegra, spensierata, rideva, diceva cose incoerenti per prendermi in giro, e anch’io finivo per partecipare alla sua allegria, ma allora il cortile, la polvere mi rattristavano di più perché m’era venuta la tentazione di pensare che la vita potesse essere diversa. Alle volte invece Claudia era in preda a un’ansia febbrile e quest’ansia allora si sommava all’aspetto dei luoghi dove abitavo, al mio lavoro di redattore de «La Purificazione», e non riuscivo a liberarmene, vivevo nell’attesa d’una nuova telefonata più drammatica ancora che mi svegliasse nel cuore della notte, e quando invece la sua voce mi arrivava inaspettatamente diversa, gaia o languida, come se non ricordasse nemmeno l’angoscia della sera prima, io, ancor prima che liberato, mi sentivo smarrito,spaesato. – Ma ho sentito bene? È da Taormina che telefoni? – Sì, sono quicon amici, è così bello, vieni subito, in aereo! Claudia telefonava sempre da città diverse, e ogni volta, fosse in stato di angoscia odi gioia di vivere, esigeva che la raggiungessi immediatamente per dividere con lei questo suo stato. Io prendevo a darle ogni volta una spiegazione minuziosa del perché mi era assolutamente impossibile mettermi in viaggio, ma non mi riusciva di proseguire perché Claudia senza starmi a sentire era già entrata in un altro giro di discorsi, di solito una requisitoria contro di me, oppure anche un imprevedibile elogio, per qualche espressione che senza badare avevo usato e che lei aveva trovato abominevole o adorabile. Quando già il tempo dell’ultima comunicazione era scaduto e le centraliniste diurne o gli impiegati del servizio notturno dicevano: – Dobbiamo interrompere, – Claudia lanciava un: – A che ora arrivi allora? – come se tutto fosse inteso, e io rispondevo farfugliando, e si finiva per rimandare gli ultimi accordi a un’altra telefonata che avrei dovuto farle o che lei mi avrebbe fatto. Ero sicuro che Claudia avrebbe intanto cambiato tutti i suoi programmi e l’urgenza del mio viaggio si sarebbe riproposta sì, ma in condizioni diverse che avrebbero giustificato nuovi rinvii; eppure mi restava dentro una specie di rimorso, chela mia impossibilità di partire non era così assoluta, che potevo per esempio chiedere un anticipo sullo stipendio al mese venturo e un permesso per assentarmi tre o quattro giorni con qualche scusa; e in queste esitazioni mi rodevo. La signorina Margariti non sentiva niente. Se attraversando il corridoio mi vedeva al telefono, mi salutava con un segno del capo, ignara di quali tempeste mi agitavano.

Il coinquilino no. Dalla sua camera sentiva tutto ed era obbligato ad applicare il suo intuito poliziesco a ogni mio trasalimento. Per fortuna non era quasi mai in casa, e perciò certe mie telefonate giungevano a essere addirittura spigliate, disinvolte, e per poco che la disposizione di Claudia me lo consentisse riuscivamo a entrare in un clima di corrispondenza amorosa per cui ogni parola acquistava un calore, un’intimità, una risonanza interiore.Altre volte invece lei era ottimamente disposta e io invece ero bloccato, non rispondevo che a monosillabi, a frasi reticenti ed evasive: c’era il sottufficiale dietro l’uscio, a un metro di distanza da me; una volta socchiuse, affacciò la faccia baffuta e nera, mi scrutò. Era un ometto, devo dire, che in altra occasione non mi avrebbe fatto nessuna impressione: ma lì,in piena notte, vederci per la prima volta in faccia, in quell’alloggio da poveri diavoli, io che facevo e ricevevo interurbane amorose di mezz’ora, lui che smontava dal servizio, tutti e due in pigiama, è certo che ci odiammo. Spesso nelle conversazioni di Claudia entravano nomi illustri, la gente che frequentava lei.Io, primo, non conosco nessuno; secondo, non posso soffrire d’attirare l’attenzione; così se proprio dovevo risponderle cercavo di non far nomi,d’usare delle perifrasi, e lei non capiva perché e ci s’arrabbiava. Dalla politica poi mi sono sempre tenuto lontano, appunto perché non mi è piaciuto mai mettermi in vista; adesso poi dipendevo da un ente parastatale e m’ero fissato la regola di non saper nulla né di questi né di quelli; e Claudia chissà cosa le frulla una sera, e mi chiede di certi deputati. Bisognava darle una risposta qualsiasi, lì, su due piedi, col sottufficiale alla porta. – Il primo che hai detto, certo, il primo… – Chi? Chi vuoi dire? – Quello lì, sì,quello più grosso, no, più piccolo… L’amavo, insomma. Ed ero infelice. Ma come lei avrebbe mai potuto capire questa mia infelicità? Ci sono quelli che si condannano al grigiore della vita più mediocre perché hanno avuto un dolore, una sfortuna; ma ci sono anche quelli che lo fanno perché hanno avuto più fortuna di quella che si sentivano di reggere. Prendevo i pasti in certi ristorantini a prezzo fisso, che in questa città sono tutti gestiti da famiglie toscane, parenti tra loro, e le cameriere sono tutte ragazze d’un paese che si chiama Altopascio, e vivono qui la loro giovinezza, ma sempre col pensiero ad Altopascio, e non si mescolano al resto della città, e la sera escono con giovani sempre di Altopascio, che lavorano qui nelle cucine dei ristoranti o anche in aziende meccaniche ma sempre tenendosi vicini ai ristoranti come a sobborghi del loro paese, e queste ragazze e questi giovani si sposano e alcuni tornano ad Altopascio, altri si fermano qui a lavorare nei ristoranti dei parenti e dei compaesani, risparmiando per poter aprire un giorno un ristorante per conto loro. La gente che mangia in questi ristoranti si sa chi è: tranne quelli di passaggio, che cambiano sempre, i clienti abituali sono impiegati scapoli, anche certe impiegate zitelle, e qualche studente e militare.

Dopo un po’ questi avventori si conoscevano tutti e chiacchieravano da un tavolo all’altro, e a un certo punto si formavano dei tavoli comuni, di gente che in principio non si conosceva e poi finiva per prender l’abitudine di mangiare sempre insieme. Anche con le camerierine toscane tutti ci scherzavano, scherzi alla buona si capisce,chiedevano dei fidanzati, si rimandavano delle battute, e quando non c’era niente di cui parlare attaccavano con la televisione, dicevano chi era simpatico e chi antipatico di quelli visti ultimamente nei programmi. Io no, non dicevo mai niente tranne le ordinazioni, sempre uguali del resto, spaghetti al burro, bollito e verdura, perché ero a dieta, e nemmeno chiamavo per nome le ragazze nonostante che i nomi ormai li avessi imparati anch’io, ma preferivo dire sempre «Signorina» per non creare l’impressione d’una familiarità: in quel ristorante io mi ci trovavo per caso, ero un cliente occasionale, magari avrei continuato ad andarci tutti i giorni per chissà quanto tempo, ma volevo sentirmi uno di passaggio, che oggi è qua domani là, se no mi dava ai nervi. Non che mi fossero antipatici, tutt’altro: sia il personale sia gli avventori erano gente brava e simpatica, e anche quell’atmosfera cordiale mi faceva piacere sentirmela intorno, anzi, se non ci fosse stata, magari mi sarebbe mancato qualcosa, però preferivo assistere senza prendervi parte. Evitavo di discorrere con gli altri clienti, e anche di salutare, perché le conoscenze, si sa, a cominciarle è niente ma poi si resta legati: uno dice «Cosa si fa stasera?» e così si finisce tutti insieme alla televisione, al cinema, e da quella sera si è presi in una compagnia di gente che non te ne importa nulla, e devi far sapere i fatti tuoi, ascoltare quelli degli altri. Cercavo di sedermi a un tavolino senza nessuno, aprivo il giornale del mattino o della sera (lo compravo andando in ufficio e davo una scorsa ai titoli, ma per leggerlo aspettavo d’essere al ristorante), e mi mettevo a ripassarlo da principio alla fine. Il giornale mi serviva molto anche quando non trovavo un altro posto ed ero obbligato a sedermi a un tavolo dove c’era già qualcuno; mi sprofondavo a leggere e nessuno mi diceva nulla. Ma cercavo sempre d’avere un tavolo da solo e per questo mi studiavo di ritardare più che potevo l’ora dei pasti, in modo da capitare lì quando il grosso dei clienti è già sfollato. C’era l’inconveniente delle briciole. Spesso mi toccava di sedermi a un tavolo da cui il cliente s’era alzato allora allora ed era pieno di briciole; perciò evitavo di guardare sul tavolo finché non veniva la cameriera a portar via piatti e bicchieri sporchi, strofinare via tutti i resti dalla tovaglia e cambiare il coprimacchie. Alle volte questo lavoro era fatto in fretta e tra coprimacchie e tovaglia restavano delle briciole di pane, e mi dava tristezza. Il meglio di tutto, per esempio per colazione, era studiare l’ora in cui le cameriere,pensando che ormai di clienti non ne verranno più, fanno pulizia per bene e preparano le tavole già per la sera; poi tutta la famiglia: padroni, cameriere,cuochi, sguatteri, apparecchiano una tavolata e si siedono finalmente a mangiare loro.

A quel momento entravo io, dicevo: – Oh, forse è troppo tardi,non mi potete più dare da mangiare? – Ma come no? S’accomodi pure dove vuole! Lisa, vedi di servire il dottore. Io mi sedevo a uno di quei bei tavolini puliti, un cuoco tornava in cucina, io leggevo il giornale, mangiavo con calma, ascoltavo quelli della tavolata ridere e scherzare e raccontare storie di Altopascio. Tra un piatto e l’altro dovevo aspettare magari un quarto d’ora, perché le camerierine erano lì sedute che mangiavano e chiacchieravano, e finivo per decidermi io a dire: – Signorina, un arancio… – e loro: – Subito! Anna, vacci tu! O Lisa! – ma a me così andava bene, ero contento. Finivo di mangiare, di leggere il giornale, uscivo col giornale arrotolato in mano,tornavo a casa, salivo alla mia stanza, buttavo il giornale sul letto, mi lavavo le mani. La signorina Margariti spiava il momento in cui entravo e quello in cui tornavo a uscire perché appena ero fuori veniva in camera mia a prendere il giornale. Non osava domandarmelo, perciò lo portava via di nascosto e di nascosto lo rimetteva sul letto prima che tornassi. Pareva se ne vergognasse, come d’una curiosità un po’frivola; di fatto leggeva una cosa sola: gli annunci mortuari. Una volta che entrando la trovai col giornale in mano, si vergognò molto e sentì il bisogno di giustificarsi. – Ogni tanto lo prendo per guardare i morti, sa, mi scusi,perché, alle volte, sa, ci ho delle conoscenze, nei morti… Con quest’idea di rimandare l’ora dei pasti, certe sere per esempio andando al cinema, facevo tardi, uscivo dal film con la testa un po’ balorda, e intorno alle insegne luminose s’addensava un buio spesso di nebbietta autunnale, che svuotava la città di dimensioni. Guardavo l’ora, mi dicevo che magari ai piccoli ristoranti non avrei più trovato da mangiare, o comunque ero uscito dal mio orario abituale e non sarei riuscito a rientrarci, e allora decidevo di fare una cenetta in piedi, al banco della birreria «Urbano Rattazzi», lì sotto casa mia. Entrare dalla strada nel locale non era solo un passaggio dal buio alla luce: cambiava la consistenza del mondo, fuori sfatto, incerto, rado, e qui pieno di forme solide, di volumi con uno spessore, un peso, superfici dai colori brillanti, il rosso d’un prosciutto che affettavano al banco, il verde delle giacchette tirolesi dei camerieri, l’oro della birra. C’era pieno di gente e io che per la via m’ero abituato a considerare i passanti ombre senza faccia e me pure un’ombra senza faccia tra le tante, qui riscoprivo tutt’a un tratto una foresta di visi maschili e femminili, colorati come frutti, ognuno diverso dagli altri e tutti sconosciuti. Per un momento speravo ancora di conservare in mezzo al oro la mia invisibilità da fantasma, poi m’accorgevo d’essere diventato anch’io come loro, un’immagine tanto precisa che pure gli specchi la riflettevano con tutti i peli della barba già ricresciuta dal mattino, e non c’era riparo possibile,
anche il fumo che si levava denso al soffitto da tutte le sigarette accese del locale era una cosa a sé, con un suo contorno e un suo spessore e non modificava la sostanza delle altre cose. Mi facevo largo al banco sempre molto affollato, voltando le spalle alla sala piena di risate e di parole che salivano da ogni tavolo, e appena si liberava uno sgabello mi ci sedevo, cercando di conquistare l’attenzione del cameriere, che mi mettesse davanti il quadrato sottocoppa di cartone, un calice di birra, e la lista delle vivande. Duravo fatica a farmi dar retta, qui alla «Urbano Rattazzi» che io vegliavo notte per notte, di cui conoscevo ogni ora, ogni soprassalto, ed il brusio nel quale si perdeva la mia voce era quello che sentivo ogni sera salire su per le ringhiere di ferro arrugginite. – Gnocchi al burro, per favore, – dicevo, e finalmente il cameriere al banco sentiva e si faceva al microfono e scandiva: – Una di gnocchi al burro! – e io pensavo al grido cadenzato come usciva dall’altoparlante della cucina, e mi pareva d’essere nello stesso tempo qui al banco e coricato lassù nella mia stanza, e le parole che s’incrociavano fitte tra le compagnie di gente allegra che beveva e mangiava e il tintinnio di bicchieri e posate cercavo di frantumarli e attutirli nella mia mente fino a riconoscere il rumore di tutte le mie sere. In trasparenza tra le linee e i colori di questa parte del mondo andavo distinguendo l’aspetto del suo rovescio del quale soltanto mi sentivo abitatore. Ma forse il vero rovescio era questo, illuminato e pieno d’occhi aperti, mentre invece l’unico lato che contasse in ogni cosa era quello in ombra, e la birreria «Urbano Rattazzi» esisteva solo perché se ne potesse sentire quella voce deformata nel buio: «Una di gnocchi al burro!», e lo sferraglio dei bidoni, perché la nebbietta della via fosse interrotta dall’alone dell’insegna, dal riquadro dei vetri appannati su cui si disegnavano confuse sagome umane. telefonata di Claudia, ma non era un’interurbana: era in città, alla stazione, arrivata in quel momento e mi chiamava perché nello scendere dal vagone letto aveva perso una delle tante valige del suo bagaglio. Arrivai in tempo a vederla uscire di stazione, alla testa d’un corteo di facchini. Di quell’agitazione che m’aveva comunicato fino alla sua telefonata di pochi minuti prima, nulla rimaneva nel suo sorriso. Era una donna molto bella ed elegante; ogni volta che la rivedevo restavo stupito come se mi fossi dimenticato di com’era. Ora si dichiarava improvvisamente entusiasta di questa città e apprezzava la mia idea d’esserci venuto ad abitare. La giornata era di piombo; Claudia lodava la luce, i colori delle vie. Prese un appartamento in un grande albergo. Per me entrare nella hall, rivolgermi al portiere, farmi annunciare al telefono, seguire il groom all’ascensore, erano cause di continuo disagio e soggezione.

Ero molto commosso che Claudia, per via di certi suoi affari ma forse in realtà per trovare me, fosse venuta a passare qualche giorno qui, commosso e imbarazzato, perché mi s’apriva davanti l’abisso tra il suo modo di vivere e il mio. Pure, riuscii a districarmi alla meglio in quella mattina movimentata e anche a fare una scappata in ufficio e ottenere un anticipo sul prossimo stipendio, per fronteggiare le giornate eccezionali che mi si preparavano. C’era il problema della scelta dei posti dove condurla a mangiare: ero poco esperto di ristoranti di lusso o di locali caratteristici. Per cominciare, pensai bene di portarla in collina. Presi un taxi. M’accorgevo adesso che in quella città in cui non c’era persona, da una certa cifra di stipendio in su, che non avesse la macchina (l’aveva persino il mio collega Avandero), io ero senza, e comunque non avrei neanche saputo guidarla. Non me n’era mai importato niente, ma di fronte a Claudia ora m’accadeva di vergognarmene. E invece Claudia trovava tutto naturale, perché – diceva – una macchina in mano mia sarebbe stato un disastro sicuro; con mio gran dispetto ostentava di sottovalutare tutte le mie capacità pratiche e di basare la sua considerazione per me su altre doti, che però non si capiva quali potessero essere. Dunque, prendemmo un taxi; mi capitò una macchina sgangherata, guidata da un vecchio. Io cercavo di voltare in caricatura questi aspetti sconnessi, da rottame, che inevitabilmente prendeva attorno a me la vita, ma lei non soffriva per la bruttezza del taxi, come se queste cose non potessero toccarla, e io non sapevo se sentirmene sollevato oppure più che mai abbandonato al mio destino. Si saliva per la verdeggiante spalliera di collina che cinge la città a levante. La giornata s’era schiarita in una dorata luce autunnale e anche i colori della campagna volgevano all’oro. Abbracciai Claudia, in quel taxi; se m’abbandonavo all’amore che lei mi portava, forse mi s’apriva quella vita verde e oro che correva in confuse immagini (m’ero tolto, per abbracciarla, gli occhiali) ai lati della strada. Prima d’andare alla trattoria, ordinai al vecchio autista che ci portasse a un punto panoramico, là in alto. Scendemmo di macchina. Claudia, con un grande cappello nero, girò su se stessa, facendo volare le pieghe della gonna. Io saltavo di qua e di là, mostrandole là dove dal cielo emergeva la cresta biancastra delle Alpi (indicavo a caso i nomi dei monti, che non sapevo riconoscere) e di qua il rilievo movimentato e saltuario della collina con paesi e strade e fiumi, e in basso la città come una rete di minute scaglie opache o luccicanti, meticolosamente allineate. Un senso di vasto m’aveva preso, non so se per il cappello e la gonna di Claudia, o per la vista. L’aria, per essere d’autunno, era abbastanza limpida e sgombra, ma pure l’attraversavano le più diverse specie di condensazioni: nebbie fitte alla base dei monti, bave di bruma sopra i fiumi, catene di nuvole agitate variamente dal vento.

Eravamo lì affacciati al muretto, io cingendole la vita, guardando i molteplici aspetti del paesaggio, subito preso da un bisogno di analisi, già scontento di me perché non disponevo d’una sufficiente nomenclatura dei luoghi e dei fenomeni naturali, lei pronta invece a trasformare le sensazioni in moti improvvisi d’umore, in espansioni, in cose dette che non c’entravano niente. Fu allora che vidi quella cosa. Afferrai Claudia per il polso, stringendoglielo. – Guarda! Guarda laggiù! – Cosa? – Laggiù! Guarda! Si muove! – Ma cos’è? Cos’hai visto? Come dirle? Dalle altre nuvole o nebbie che a seconda di come l’umidità s’addensa negli strati freddi dell’aria sono grige o azzurrastre o bianchicce oppure nere, questa non era poi tanto diversa, se non per il colore incerto, non so se più sul marrone o sul bituminoso, o meglio: per un’ombra di questo colore che pareva farsi più carica ora ai margini ora in mezzo, ed era insomma un’ombra di sporco che la insudiciava tutta e ne mutava – anche in questo essa era diversa dalle altre nuvole – pure la consistenza, perché era greve, non ben spiccicata dalla terra, dalla distesa screziata della città sulla quale pure scorreva lentamente, a poco a poco cancellandola da una parte e dall’altra riscoprendola, ma lasciandosi dietro uno strascico come di filacce un po’sudice, che non finivano mai. – Lo smog! – gridai a Claudia. – Vedi quella? È una nuvola di smog! Ma lei, senza ascoltarmi, era presa da qualcosa che aveva visto volare, uno stormo di uccelli, e io restavo lì affacciato a guardare per la prima volta dal di fuori la nuvola che mi circondava in ogni ora, la nuvola che abitavo e che m’abitava, e sapevo che di tutto il mondo variegato che m’era intorno solo quella m’importava. Alla sera condussi Claudia a cena alla birreria «Urbano Rattazzi», perché tranne i ristoranti a prezzo fisso non conoscevo nessun altro locale e avevo paura di finire in qualche posto troppo dispendioso. Alla «Urbano Rattazzi» entrare con una donna come Claudia era tutta un’altra cosa: i camerieri in giacchetta tirolese si mobilitavano tutti, ci davano un buon tavolo, avvicinavano i carrelli delle specialità. Io cercavo di prendere pose da cavaliere disinvolto ma nello stesso tempo mi sentivo riconosciuto come l’inquilino della camera d’affitto sul cortile, l’avventore dei pasti frettolosi al banco. Questo stato d’animo mi fece essere goffo, insulso nella conversazione e presto Claudia s’arrabbiò con me. Prendemmo a litigare fitto fitto; le nostre voci erano sommerse dal chiasso della birreria, ma avevamo addosso gli occhi non solo dei camerieri pronti a ogni cenno di Claudia, ma anche dei clienti, incuriositi da questa donna bellissima, elegante e autorevole in compagnia d’un uomo così dimesso. E m’accorgevo che le fasi del litigio erano seguite da tutti, anche perché Claudia, nel suo disinteresse per la gente che la circondava, non si curava di mascherare i suoi atteggiamenti. A me sembrava che tutti non attendessero altro che il momento in cui Claudia incollerita si sarebbe alzata e m’avrebbe piantato lì solo, facendomi ritornare l’uomo anonimo
che ero sempre stato, di cui non ci s’accorge più che d’una macchia d’umidità sul muro. Invece, come al solito, al litigio seguì una tenera intesa amorosa; si era alla fine della cena e Claudia sapendo che abitavo lì vicino disse: – Salgo da te. Ora, io l’avevo portata alla «Urbano Rattazzi» perché era l’unico posto di quel tipo che conoscessi, non perché era vicino al mio alloggio; anzi stavo sulle spine al solo pensiero che lei potesse farsi un’idea della casa in cui vivevo gettando un’occhiata nel portone, e facevo affidamento soprattutto sulla sua distrazione. Invece volle salire. Esagerai, parlandone, lo squallore del luogo, per buttare l’avventura tutta sul grottesco. Ma lei invece salendo e attraversando il ballatoio, notava solo i pregi, l’antica e non ignobile architettura dell’edificio, la funzionalità con cui i vecchi appartamenti erano disposti. Entrammo, e lei: – Ma che dici? Ma è una bellissima stanza! Ma cosa vuoi di più? Io mi voltai subito al lavabo, prima d’aiutarla a togliersi il soprabito, perché m’ero sporcato al solito le mani. Lei no, girava con le sue mani svolanti come piume tra i mobili polverosi. La stanza fu presto invasa da quegli oggetti così estranei: il cappello con la veletta, le volpi, il vestito di velluto, la sottana d’organza, le scarpe di raso, le calze di seta; ogni cosa io cercavo di far entrare nell’armadio, nei cassetti perché a star lì mi pareva si dovesse ricoprire in poco tempo d’impronte fuligginose. Ora Claudia era sdraiata con la sua bianca persona sul letto, quel letto che a batterlo avrebbe alzato una nube di polvere, e allungò una mano verso lo scaffale lì a fianco, prese un libro. – Attenta, è polveroso! – Ma lei l’aveva aperto, lo stava sfogliando, poi lo lasciava cadere. Io guardavo il suo seno ancora da giovinetta, i rosei culmini appuntiti, e mi prese lo struggimento che vi fosse calata della polvere dalle pagine del libro, e avanzai le mani a sfiorarli in un gesto che somigliava a una carezza ma era invece un voler toglierle quel po’di polvere che mi pareva ci fosse caduta. Invece la sua pelle era liscia, fresca, intatta; e io che vedevo nel cono di luce della lampada librarsi una pioggia di granelli minutissimi che lentamente si sarebbe depositata anche su Claudia, mi buttai sopra di lei in un abbraccio che era soprattutto un volerla coprire, proteggere, prendere su me tutta la polvere perché lei ne fosse salva.

Dopo che lei fu partita (un po’delusa e annoiata della mia compagnia, nonostante la sua imperturbabile ostinazione a proiettare sul prossimo una luce che era solo sua), mi buttai nel lavoro redazionale con lena raddoppiata, un po’perché la visita di Claudia m’aveva fatto perdere parecchie ore d’ufficio ed ero rimasto indietro nella preparazione del numero, un po’per non pensare a lei, e un po’ anche perché l’argomento trattato dal quindicinale «La Purificazione» non lo sentivo più estraneo come in principio. Mi mancava ancora l’articolo di fondo, ma questa volta l’ingegner Cordà non m’aveva lasciato istruzioni. – Faccia un po’lei. Mi raccomando -. Io cominciai a scrivere uno dei soliti pistolotti, ma poco a poco, da una parola all’altra, mi venne da descrivere la nuvola di smog come l’avevo vista strusciarsi addosso alla città, e la vita come si svolgeva dentro questa nuvola, e le facciate delle case antiche, piene di sporgenze, di incavi, dove s’addensava un deposito nero, e le facciate delle case moderne, lisce, monocrome, squadrate, sulle quali a poco a poco s’estendevano delle sfumate ombre oscure, come sui colletti bianchi delle camicie del personale impiegatizio, che non duravano puliti mezza giornata. E scrissi che sì, ancora c’era chi viveva fuori della nuvola di smog, e forse ci sarebbe sempre stato, chi poteva attraversare la nuvola e soffermarcisi proprio nel bel mezzo e uscirne, senza che il minimo soffio di fumo o granello di carbone toccasse la sua persona, turbasse il suo ritmo diverso, la sua bellezza d’altro mondo, ma quel che importava era tutto ciò che era dentro lo smog, non ciò che ne era fuori: solo immergendosi nel cuore della nuvola, respirando l’aria nebbiosa di queste mattine (già l’inverno cancellava le vie in un’indistinta bruma), si poteva toccare il fondo della verità e forse liberarsi. Era tutta una polemica verso Claudia; me ne accorsi subito e strappai l’articolo senza nemmeno farlo leggere ad Avandero. Il dottor Avandero era un tipo che non avevo ancora capito bene. Un lunedì mattina entrando in ufficio come te lo trovo? Abbronzato! Sì, invece della solita faccia color pesce bollito aveva una cera tra il rosso e il bruno, con qualche segno di scottatura sulla fronte e sugli zigomi. – Cosa t’è successo? – gli chiesi. (Negli ultimi tempi avevamo preso a darci del tu.) – Sono stato a sciare. La prima neve. Perfetta, farinosa. Vieni anche tu, domenica? Da quel giorno, Avandero mi prese a confidente della sua passione per lo sci. Confidente, ho detto: perché parlandone con me, esprimeva qualcosa di più che una passione per un’abilità tecnica, tutta esattezza geometrica di movimenti, per un’attrezzatura funzionale, per un paesaggio ridotto a una pura pagina bianca; ci metteva, lui impiegato inappuntabile e ossequiente, una polemica segreta contro il suo lavoro, che svelava in risolini come di superiorità e in piccole puntate maligne: – Eh, quella sì che è «la purificazione»! Lo smog ve lo lascio tutto a voialtri, io! – corrette subito da un: – Dico per scherzare… – Ma avevo capito che anche lui, tanto ligio, era uno che all’Ente e alle idee dell’ingegner Cordà non ci credeva affatto.

Un sabato pomeriggio lo incontrai, Avandero, tutto bardato da sci, con un berrettino a visiera come il becco d’un merlo, che andava verso un pullman, già preso d’assalto da una folla di sciatori e sciatrici. Mi salutò, con la sua arietta sufficiente. – Resti in città? – Io sì. A che serve andarsene? Domani sera sei già tornato nella bagna. Aggrottò la fronte sotto la visiera del berretto da merlo. – E a che serve la città se non ad andarsene il sabato e la domenica? – E s’affrettò attorno al pullman, perché aveva da proporre una maniera nuova di sistemare gli sci sull’imperiale. Per Avandero, come per centinaia di migliaia d’altre persone che ci davano dentro tutta la settimana in grige occupazioni pur di poter correre via alla domenica, la città era un mondo perso, una macina per produrre i mezzi d’uscirne quelle poche ore e poi tornarci. Avandero, passati i mesi dello sci, cominciava quelli delle gite campestri, della pesca alle trote, e poi del mare, e della montagna estiva, e della macchina fotografica. La storia della sua vita – che frequentandolo cominciai a ricostruire anno per anno – era la storia dei suoi mezzi di trasporto: prima una bici a motore, dopo un motoscooter, poi una moto, adesso l’utilitaria, e gli anni a venire erano già segnati dalle previsioni di automobili sempre più comode e veloci. Il nuovo numero de «La Purificazione» doveva andare in macchina, ma l’ingegner Cordà non aveva ancora visto le bozze. Lo aspettavo all’epauci per quel giorno, ma non si fece vedere, e solo verso sera telefonò che lo raggiungessi al suo ufficio alla Wafd, e gli portassi lì le bozze perché lui non si poteva muovere. Anzi, mandava la sua macchina con l’autista a prendermi. La Wafd era una fabbrica di cui Cordà era consigliere delegato. La grossa automobile, con me rincantucciato in fondo, le mani col plico delle bozze sulle ginocchia, mi portò per sconosciuti quartieri della periferia, fiancheggiò un muro cieco, entrò salutata dai guardiani per un ampio cancello e mi depositò ai piedi della scalinata della direzione. L’ingegner Cordà stava alla scrivania del suo ufficio, attorniato da un gruppo di dirigenti, esaminando certi conti o piani di produzione che si stendevano su enormi fogli e traboccavano dal tavolo. – Scusi un momento solo, dottore, – mi disse, – e sono subito da lei. Io guardavo alle sue spalle: la parete dietro di lui era una lastra di vetro, una larghissima finestra dalla quale si dominava l’estensione della fabbrica. Nella sera nebbiosa emergevano poche ombre; in primo piano spiccava la sagoma d’un elevatore a catena che portava su grandi secchi – credo – di polvere di ghisa. Si vedeva la fila delle tazze di ferro salire con continui scatti e un lieve ondeggiare che pareva scomponesse un poco la sagoma del mucchio di minerale e mi pareva che un velo fitto se ne levasse in aria e venisse a posarsi anche sulla vetrata dello studio dell’ingegnere.

In quel momento egli diede ordine d’accendere la luce; d’improvviso contro il buio di fuori la vetrata apparve ricoperta d’un minuto smeriglio, certo fatto di polvere di ghisa, luccicante come il pulviscolo d’una galassia. Il disegno delle ombre là fuori si scompose; più nette risultarono in fondo le sagome delle ciminiere, incappucciate ciascuna da uno sbuffo rosso, e sopra queste fiamme per contrasto s’accentuava l’ala nera come d’inchiostro che invadeva tutto il cielo e vi si scorgevano salire e vorticare punti incandescenti. Cordà ora stava esaminando con me le bozze de «La Purificazione» e subito entrato nel diverso campo d’entusiasmi e sollecitazioni mentali della sua attività di presidente dell’epauci, commentava con me e con i dirigenti della Wafd gli articoli del bollettino. E io che tante volte di fronte a lui, negli uffici dell’Ente, sfogavo il mio naturale antagonismo di dipendente dichiarandomi mentalmente dalla parte dello smog, agente segreto dello smog penetrato nello stato maggiore nemico, ora capivo quanto il mio gioco era insensato, perché era l’ingegner Cordà il padrone dello smog, era lui che lo soffiava ininterrottamente sulla città, e l’epauci era una creatura dello smog, nata dal bisogno di dare a chi lavorava per lo smog la speranza d’una vita che non fosse solo di smog, ma nello stesso tempo per celebrarne la potenza. Cordà, contento del numero, volle accompagnarmi a casa in macchina. Era una serata di nebbia fitta. L’autista procedeva piano, perché oltre le rade luci non si vedeva di qui a lì. Il presidente, trasportato da uno dei suoi slanci d’ottimismo generale, andava tracciando le linee d’una città del futuro, con quartieri giardino, fabbriche circondate da aiole e specchi d’acqua, impianti di razzi che spazzavano dal cielo il fumo delle ciminiere. E indicava di là dai vetri, nel nulla di fuori, come se le cose che lui immaginava fossero già lì; io lo stavo a sentire non so se spaventato o ammirato, scoprendo come l’abile uomo d’industria e il visionario coesistessero in lui e avessero bisogno uno dell’altro. A un certo punto, mi parve di riconoscere i miei posti. – Fermi, fermi pure qui, sono arrivato, – dissi all’autista. Salutai, ringraziai, scesi. Quando l’auto fu ripartita m’accorsi d’essermi sbagliato. Ero sceso in un quartiere sconosciuto e intorno non si vedeva nulla. Al ristorante continuavo a consumare i miei pasti solo, dietro il riparo del giornale. E mi accorsi che c’era anche un altro avventore che si comportava nello stesso modo. Qualche volta non essendoci altri posti liberi finivamo allo stesso tavolo e ci fronteggiavamo coi giornali spiegati. Leggevamo quotidiani diversi: il mio era quello che leggevano tutti, il più importante giornale della città; certo non avevo nessuna ragione per farmi notare come uno diverso dagli altri leggendo un altro giornale, o addirittura (se avessi letto il giornale del mio commensale) come uno che ha delle opinioni politiche spinte. Da opinioni politiche e partiti io mi sono sempre tenuto lontano, ma lì al tavolo del ristorante, certe sere, quando posavo il giornale, il commensale diceva: – Permette? – facendo cenno di prenderlo, e m’offriva il suo: – Se vuole leggere questo…
Così davo un’occhiata al suo giornale, che era un po’come dire il rovescio del mio, non solo perché sosteneva idee opposte, ma perché s’occupava delle cose che per quell’altro non esistevano nemmeno: dipendenti licenziati, macchinisti che restavano con una mano in un ingranaggio (di queste persone pubblicava anche la fotografia), tabelle con le cifre degli assegni familiari, e così via. Ma soprattutto, quanto l’altro giornale cercava d’esser sempre brillante nella stesura degli articoli e d’attirare il lettore con fatterelli divertenti, per esempio i divorzi delle belle ragazze, tanto questo era scritto con espressioni sempre uguali, ripetute, grige, con titoli che mettevano in rilievo il lato negativo delle cose. Anche il modo con cui il giornale era stampato era grigio, fitto fitto, monotono. E a me venne da pensare: «Tò, mi piace». Cercai di dire quest’impressione al mio commensale, naturalmente guardandomi bene dal commentare singole notizie e opinioni (già lui aveva cominciato a chiedermi cosa mi sembrava d’una certa notizia dall’Asia) e cercando nello stesso tempo di attenuare l’aspetto negativo del mio giudizio, perché mi pareva un tipo che non accetta critiche alla sua parte e io non avevo intenzione d’imbarcarmi in una discussione. Invece egli pareva seguire un suo filo di pensieri, per cui il mio apprezzamento del giornale doveva apparire superfluo o fuori posto. – Sa? – disse, – non è ancora un giornale fatto come dovrebbe esser fatto. Non è come io vorrei che fosse. Era un giovane basso di statura ma ben proporzionato, bruno, ricciuto, pettinato con molta cura, con la faccia ancora da ragazzo, pallida e rosata sulle guance, i lineamenti fini e regolari, lunghe ciglia nere, un’aria contegnosa, quasi superba. Vestiva con un’accuratezza un po’ricercata. – C’è ancora tanta genericità, tanta mancanza di precisione, – continuò, – specialmente per quel che riguarda le cose nostre. È ancora troppo un giornale che somiglia agli altri. Un giornale come dico io dovrebbe esser fatto in massima parte dai suoi lettori. Dovrebbe cercare di dare un’informazione scientificamente esatta di tutto quello che avviene nel mondo della produzione. – Lei è tecnico in una fabbrica? – chiesi. – Operaio specializzato. Facemmo conoscenza.

Si chiamava Omar Basaluzzi. Quando seppe che lavoravo all’epauci s’interessò molto e mi chiese dei dati che avrebbe utilizzato in una sua relazione. Gli indicai alcune pubblicazioni (alla portata di tutti, del resto; non tradivo alcun segreto d’ufficio, come a ogni buon conto gli feci notare con un sorrisetto) ed egli tirò fuori una piccola agenda e prese nota con metodo, come compilasse una scheda bibliografica. – Io mi occupo di studi statistici, – disse, – un settore in cui la nostra organizzazione è molto indietro -. Ci infilammo i cappotti per uscire. Basaluzzi aveva un soprabito sportivo, di taglio elegante, e un berrettino di tela impermeabile. – …È molto indietro, – continuò, – mentre, secondo me, è il settore fondamentale… – Il lavoro le lascia tempo per occuparsi di questi studi? – gli chiesi. – Vede, – mi disse (rispondeva sempre un po’dall’alto, con una certa sufficienza cattedratica), – è tutta questione di metodo. Io ho otto ore di fabbrica al giorno, e poi non c’è sera che non abbia qualche riunione, anche la domenica. Ma bisogna saper organizzare il lavoro. Ho formato dei gruppi di studio, tra i giovani della nostra azienda… – Sono in tanti… quelli come lei? – Pochi. Sempre meno. A uno a uno ci fanno fuori. Un giorno o l’altro vedrà qui, – e indicava il giornale, – la mia foto sotto il titolo: «Un nuovo licenziamento di rappresaglia». Camminavamo nel freddo notturno; io stavo rincantucciato nel mio cappotto, a bavero alzato; Omar Basaluzzi procedeva con calma, parlando, a collo alto, con la piccola nuvola di fiato che usciva dalle labbra finemente disegnate, e ogni tanto levava di tasca una mano per sottolineare un punto del suo discorso, e allora si fermava, come se non potesse andare avanti finché quel punto non fosse chiaramente stabilito. Io non seguivo più le cose che diceva; pensavo che uno come Omar Basaluzzi non cercava di sfuggire a tutto il grigio fumoso che c’era intorno, ma di trasformarlo in un valore morale, in una norma interiore. – Lo smog… – dissi. – Lo smog? Sì, so che Cordà vuol essere l’industriale moderno… Purificare l’atmosfera… Lo vada a raccontare ai suoi operai! Non sarà certo lui che la purifica… È questione di struttura sociale… Se riusciamo a cambiarla, risolveremo anche il problema dello smog. Noi, non loro. M’invitò a venire con lui, a un’assemblea di rappresentanti sindacali di diverse aziende della città. Mi sedetti in fondo a una sala fumosa. Omar Basaluzzi prese posto al tavolo della presidenza insieme ad altri uomini tutti più anziani di lui. La sala non era riscaldata; tutti tenevano i cappotti e i cappelli. A uno a uno s’alzavano quelli che dovevano parlare e si rimettevano in piedi accanto al tavolo; il modo di rivolgersi al pubblico era uguale per tutti, neutro, spoglio, con formule per aprire il discorso e per legare gli argomenti che dovevano appartenere a una loro convenzione perché tutti le usavano. Da certi mormorii dell’uditorio m’accorgevo che era stata detta una battuta polemica, ma erano polemiche coperte, che cominciavano sempre approvando quello che era stato detto prima. Molti di quelli che parlavano mi pareva che ce l’avessero proprio con Omar Basaluzzi; il giovane, seduto un po’di sbieco al tavolo della presidenza, aveva tratto di tasca una borsa da tabacco di cuoio lavorato e una corta pipa inglese, e la riempì con lenti movimenti delle sue piccole mani, si mise a fumare boccate attente, a palpebre socchiuse, un gomito puntato sul tavolo e la guancia appoggiata contro la mano.
La sala s’era riempita di fumo. Uno propose d’aprire un momento una finestrella lassù in alto. Una ventata fredda cambiò l’aria ma presto da fuori cominciò a entrare la nebbia, e da un capo all’altro della sala quasi non ci si vedeva. Io dal mio posto scrutavo quella folla di schiene immobili nel freddo, qualcuna col bavero alzato, e la fila di sagome incappottate al tavolo della presidenza, e uno in piedi che parlava, grosso come un orso, tutti avvolti, impregnati ormai da quella nebbia, anche le loro parole, la loro ostinazione. Claudia tornò in febbraio. Andammo a colazione in un ristorante di lusso sul fiume, in fondo al parco. Fuori dei vetri guardavamo le rive e le piante che componevano col colore dell’aria un quadro di vecchia eleganza. Non riuscivamo a intenderci. Discutevamo sul tema: la bellezza. – Gli uomini hanno perduto il senso della bellezza, – diceva Claudia. – La bellezza va inventata continuamente, – dicevo io. – La bellezza è sempre la bellezza, è eterna. – La bellezza nasce sempre da un urto. – Sì, i greci! – E bè, i greci? – È civiltà, la bellezza! – Quindi… – E allora… Potevamo continuare così fino a domani. – Questo parco, questo fiume… («Questo parco, questo fiume, – io pensavo, – possono stare solo in margine, consolarci del resto; una bellezza antica non può nulla contro una bruttezza nuova»). – Quest’anguilla… Nel mezzo della sala del ristorante c’era una cassa di vetro, un acquario, e dentro vi nuotavano delle grosse anguille. – Guarda! S’avvicinarono degli avventori, gente di riguardo, una famiglia di agiati buongustai: madre, padre, figlia grande, figlio adolescente. Accanto a loro era il maître, in marsina, sparato bianco, corpulento, enorme; impugnava il manico d’una reticella, come quelle dei bambini per le farfalle. La famiglia guardava le anguille, seria, attenta; a un certo punto la signora alzò una mano, indicò un’anguilla. Il maître immerse la reticella nell’acquario, con mossa rapida catturò il pesce e lo trasse fuori dall’acqua. L’anguilla si dibatteva guizzando nella rete. Il maître s’allontanò verso la cucina reggendo dinanzi a sé come una lancia la rete col pesce boccheggiante. La famiglia lo seguì con lo sguardo, poi si sedette a tavola, ad aspettare che tornasse cucinato. – La crudeltà… – La civiltà… – Tutto è crudele…
Invece di chiamare un taxi, uscimmo a piedi. I prati, i tronchi erano fasciati di quel velo che si levava fitto dal fiume, umido, qui ancora un fatto di natura. Claudia camminava raccolta nella pelliccia dal bavero spiovente, nel manicotto, nel colbacco. Eravamo le due ombre d’innamorati che fanno parte del quadro. – La bellezza… – La tua bellezza… – A che serve? Tanto… Io dissi: – La bellezza è eterna. – Ah, dici quello che prima dicevo io? – No: il contrario… – Con te non si può mai discutere, – lei disse. Si staccò come volesse andarsene per conto suo, per il viale. Una lama di nebbia corse raso terra: la silhouette impellicciata camminava come se non toccasse il suolo. Riaccompagnavo Claudia in albergo, la sera, e trovammo la hall piena di signori in smoking e signore scollate. Era carnevale, nel salone dell’albergo c’era un veglione di beneficenza. – Che bello! Mi ci accompagni? Vado a mettermi l’abito da sera! Io non sono tipo da veglioni e mi sentivo a disagio. – Ma non abbiamo l’invito… Io sono vestito di marron… – Per me non c’è bisogno d’inviti… E tu sei il mio cavaliere… Corse su a cambiarsi. Io non sapevo dove stare. C’era pieno di ragazze col primo abito da sera, che s’incipriavano prima d’entrare nel salone e si scambiavano bisbigli eccitati. Stavo in un angolo, cercando di considerarmi un commesso venuto lì a portare un pacco. S’aperse l’ascensore. Uscì Claudia in una gonna traboccante, le perle sul petto rosa, una mascherina coi brillanti. Io non potevo più far la parte del commesso. Andai al suo fianco. Entrammo. Tutti gli occhi le erano addosso. Trovai un cotillon da mettermi in faccia, una specie di maschera con un naso buffo. Ci mettemmo a ballare. Quando Claudia volteggiava, le altre coppie ci facevano largo per vederla; io che ballo malissimo volevo invece stare in mezzo alla folla, ed era una specie di gioco a nascondersi. Claudia osservò che non ero niente allegro, che non sapevo divertirmi. Finito un ballo, passavamo per raggiungere il nostro tavolo davanti a un gruppo di signori in piedi. – Oh! – Mi trovai faccia a faccia con l’ingegner Cordà. Era in frac, con un cappelluccio di cotillon arancione in testa. Mi toccò fermarmi a salutarlo. – Ma è proprio lei, dottore, mi pareva e non mi pareva! – diceva lui, ma guardava Claudia, e io capivo che voleva dire che non si sarebbe mai aspettato di vedermi con una donna così, io sempre il solito, con la mia giacchetta dell’ufficio.

Dovetti far le presentazioni; Cordà baciò la mano a Claudia, le presentò quegli altri signori anziani che erano con lui, e Claudia sempre distratta e superiore non stava a sentire i nomi (e io invece dicevo tra me: «Accidenti! Pensa un po’chi è!» perché erano tutti pezzi grossi dell’industria). Poi Cordà presentò me: – Il dottore è il redattore del nostro periodico, voi sapete, «La Purificazione», da me diretto, vero… – Compresi che erano tutti un po’ intimiditi, di fronte a Claudia, e dicevano delle stupidaggini. Allora mi sentii meno timido io. Capii che stava per succedere qualcosa, cioè che Cordà non stava nella pelle di invitare Claudia a ballare. Dissi: – Così, allora, è vero, ci vediamo più tardi… – feci dei gran cenni di saluto e portai Claudia di nuovo sulla pista delle danze, e lei diceva: – Ma dì, questo tu non lo sai ballare, non senti che cos’è? Io sentivo solo che avevo, in qualche modo non ben chiaro nemmeno a loro, guastato loro la festa con la mia apparizione a fianco di Claudia, ed era questa l’unica soddisfazione che potevo trarne. – Chachacha… – canterellavo facendo finta di ballare un passo che non conoscevo affatto, tenendo Claudia solo leggermente per mano perché potesse muoversi per conto suo. Era il carnevale; perché non avrei dovuto divertirmi? Le trombette ululavano scompigliando le loro frange spioventi, manciate di coriandoli picchiettavano come uno sbriciolio di calcinacci le spalle delle marsine e quelle nude delle donne, s’infilavano nell’orlo dei décolletés e dei colletti, e dai lampadari al pavimento dove s’ammucchiavano in molli grovigli spinti dallo scalpiccio dei ballerini si tendevano le stelle filanti come fasci di fibre ormai spoglie di materia o come fili rimasti penzolanti tra i muri crollati d’una distruzione generale. – Voi potete accettare il mondo brutto com’è perché sapete di doverlo distruggere, – dissi a Omar Basaluzzi. Parlavo un po’per provocarlo, se no non c’era gusto. – Un momento, – disse Omar, posando la tazzina di caffè che stava portando alle labbra, – noi non diciamo mica: tanto peggio tanto meglio. Noi siamo per migliorare… Né riformismo né estremismo: noialtri… Io seguivo il mio filo di pensieri, lui il suo. Da quella volta al parco con Claudia, cercavo una nuova immagine del mondo che desse un senso a questo nostro grigiore e valesse tutta la bellezza che si perdeva, salvandola… – Una nuova faccia del mondo. L’operaio aperse la cerniera d’un portafoglio di pelle nera, tirò fuori una rivista illustrata. – Vede? – C’era una serie di fotografie. Un popolo asiatico, con berrettini di pelliccia e calzari, andava beatamente a pesca per un fiume. In un’altra foto, c’era quello stesso popolo che andava a scuola: un maestro indicava su un lenzuolo le lettere d’un alfabeto incomprensibile. In un’altra figura c’era una festa e tutti avevano delle teste di draghi, e nel mezzo, tra i draghi, veniva avanti un trattore con sopra un ritratto. Alla fine c’erano due, sempre col berrettino di pelliccia, che manovravano un tornio. – Vede? È questa, – disse, – l’altra faccia del mondo.
Guardai Basaluzzi. – Voi non avete berrettini di pelliccia, non pescate storioni, non giocate coi draghi. – E con ciò? – Con ciò, non avrete niente che assomigli a loro, tranne questo, – e indicai il tornio, – che già avete. – Eh no, sarà come lì, perché è la coscienza che cambierà, da noi come da loro, saremo nuovi dentro, prima che fuori… – diceva Basaluzzi e continuava a sfogliare la rivista. In un’altra pagina c’erano fotografie di altiforni e di operai con gli occhiali sulla fronte e le facce fiere. – Eh, ci saranno problemi anche allora, non bisogna credere che da un giorno all’altro… – disse. – Per un bel po’, sarà dura: la produzione… Ma si sarà fatto un bel passo… Cose come adesso, per esempio, non ne succederanno… – e riprese a parlare delle cose di cui parlava sempre, dei problemi che giorno per giorno gli stavano a cuore. Mi rendevo conto che a lui, venisse o non venisse quel giorno, gli importava meno di quel che si potesse credere, perché quel che contava era la condotta della sua vita, che non doveva cambiare. – Grane ce ne saranno sempre, si capisce… Non sarà il paradiso… Come noialtri non siamo mica santi… Cambierebbero vita i santi, se sapessero che il paradiso non c’è? – Mi hanno licenziato la settimana scorsa, – fece Omar Basaluzzi. – E adesso? – Faccio attività al sindacato. Forse quest’autunno si fa libero un posto da funzionario. Stava andando alla Wafd, dove in mattinata s’era svolta una difficile agitazione. – Viene con me? – Eh! Proprio lì non posso farmi vedere, lei capisce il perché. – Neanch’io posso farmi vedere. Comprometterei i compagni. Ci metteremo in un caffè lì vicino. Andai con lui. Dai vetri d’un caffeuccio vedevamo gli operai del turno uscire dai cancelli coi manubri delle biciclette per mano, o affollarsi ai tram, le facce già disposte al sonno. Qualcuno, certo già avvertito, entrava nel caffè e s’avvicinava subito a Omar; così si formò un gruppetto che si mise a parlare in disparte. Io non capivo nulla delle loro questioni e m’ero messo a studiare cosa c’era di diverso tra la faccia degli innumerevoli che sciamavano via dai cancelli certo senza pensare a niente tranne che alla famiglia e alla domenica, e questi qui che si fermavano con Omar, cioè gli ostinati, i duri. E non ci trovavo nessun segno che li distinguesse: le stesse facce anziane o presto mature, figlie della stessa vita; la differenza era dentro.

E poi studiavo le facce e le parole di questi per vedere se distinguevo chi alla base di tutto aveva il pensiero «Verrà il giorno…» e quelli per cui, come per Omar, che venisse o non venisse il giorno, non cambiava. E vidi che non si potevano distinguere, perché forse tutti erano dei secondi, anche quei pochi che per impazienza o faciloneria di parola potevano sembrare dei primi. E poi non sapevo più cosa guardare e guardai il cielo. Era una giornata di prima primavera e sopra le case della periferia il cielo era luminoso, azzurro, limpido, però a scrutarlo bene ci vedevo come un’ombra, una sbavatura come su una vecchia fotografia ingiallita, come i segni che si vedono attraverso una lente spettroscopica. Neanche la bella stagione avrebbe pulito il cielo. Omar Basaluzzi aveva inforcato un paio d’occhiali neri dalla grossa montatura e continuava a parlare in mezzo a quegli uomini, minuzioso, competente, superbo, un po’nasale. Pubblicai su «La Purificazione» una notizia presa da un giornale straniero sull’inquinamento dell’aria per le radiazioni atomiche. Era in corpo minore e l’ingegner Cordà sulle bozze non ci fece caso, ma la lesse sul giornale già stampato e mi mandò a chiamare. – Santoddio, bisogna proprio star dietro a tutto, cento occhi ci vogliono! – fece. – Cosa le è venuto in mente di pubblicare quella notizia lì? Non è di queste cose che si occupa il nostro Ente. Ci mancherebbe! E poi, senza dirmi nulla! Una cosa così delicata! Adesso diranno che ci mettiamo a fare della propaganda! Risposi qualche frase di giustificazione: – Sa, trattandosi d’inquinamento, mi scusi, avevo pensato… M’ero già congedato quando Cordà mi richiamò. – Ma, senta, dottore, lei a questo pericolo della radioattività ci crede? Sì, insomma, che sia già così grave… Ero al corrente di alcuni dati d’un congresso di scienziati e glie li riferii. Cordà mi stava a sentire, assentendo, contrariato. – Mah, in quale terribile tempo ci è stato dato di vivere, caro dottore! – scattò a un certo punto, ed era tornato il Cordà che ben conoscevo. – È il rischio che dobbiamo correre, caro lei, senza voltarci indietro, perché la posta è grossa, caro lei, la posta è grossa! Restò a capo chino qualche minuto. – Noi, nel nostro settore, – riprese, – senza voler sopravvalutare, la nostra parte la facciamo, il nostro contributo lo diamo, siamo all’altezza della situazione. – Questo è certo, ingegnere. Ne sono convinto, ingegnere -. Ci guardammo, un po’imbarazzati, un po’ipocriti. La nube di smog ora appariva rimpicciolita, una nuvoletta appena, un cirro, a paragone della sovrastante nube atomica. Lasciai l’ingegner Cordà dopo alcune altre frasi generiche e affermative, e anche stavolta non si capiva bene se la sua vera battaglia la intendesse pro o contro la nuvola.

Da allora evitai di far cenno nei titoli alle esplosioni o alla radioattività, ma in ogni numero, nelle colonne dedicate al notiziario tecnico, cercavo d’introdurre qualche informazione sull’argomento, e anche in certi articoli, in mezzo ai dati sulle percentuali di carbone o di nafta nell’atmosfera urbana e sulle loro conseguenze fisiologiche, inserivo dati ed esempi analoghi relativi alle zone atomizzate. Né Cordà né altri mi fecero più osservazione, ma questo anziché rallegrarmi mi confermava nel sospetto che «La Purificazione» non la leggesse proprio nessuno. Avevo una cartella in cui tenevo il materiale sulle radiazioni nucleari, perché scorrendo i giornali con l’occhio esercitato a scegliere notizie e articoli da utilizzare, trovavo sempre qualcosa su quel tema e lo mettevo da parte. Un’agenzia di ritagli stampa, poi, a cui l’Ente era abbonato, per la voce «Inquinamento dell’atmosfera» ci mandava sempre più ritagli che parlavano delle bombe atomiche, mentre quelli sullo smog erano sempre meno. Così ogni giorno mi capitavano sott’occhio statistiche di malattie terribili, storie di pescatori raggiunti in mezzo all’oceano da nubi mortifere, cavie nate con due teste dopo esperimenti con l’uranio. Alzavo gli occhi alla finestra. Era giugno avanzato ma l’estate non cominciava: il tempo era greve, le giornate oppresse da una fosca caligine, nelle ore meridiane la città era immersa in una luce di finimondo, i passanti parevano ombre fotografate al suolo dopo che il corpo era volato via. Il corso normale delle stagioni pareva cambiato, densi cicloni percorrevano l’Europa, l’inizio dell’estate era segnato da giorni carichi d’elettricità, poi da settimane di pioggia, da calori improvvisi e da improvvisi ritorni d’un freddo come di marzo. I giornali escludevano che in questi disordini atmosferici potessero entrare gli effetti delle bombe; solo qualche solitario scienziato pareva lo sostenesse (di cui peraltro era difficile stabilire se dava affidamento) e insieme la voce anonima del popolino, pronta sempre, si sa, a fare un’accozzaglia delle cose più disparate. Anche a me dava ai nervi sentire la signorina Margariti che parlava scioccamente dell’atomica per avvertirmi che anche quel mattino avrei dovuto prendere l’ombrello. Ma certo, aprendo le persiane, alla vista livida del cortile, che in quella falsa luminosità appariva un reticolo di striature e macchie, ero tentato di ritirarmi come se una scarica di particelle invisibili proprio in quel momento stesse abbattendosi dal cielo. Questo peso di cose non dette che si trasformava in superstizione pesava sui comuni discorsi del tempo che fa, una volta considerati i meno impegnativi. Del tempo adesso si evitava di parlare, o dovendo dire che pioveva o che s’era schiarito s’era presi da una specie di vergogna, come si tacesse qualche nostra oscura responsabilità. Il dottor Avandero che viveva i giorni della settimana preparando la gita domenicale, aveva preso verso il tempo una finta indifferenza che mi pareva del tutto ipocrita, servile. Feci un numero de «La Purificazione» in cui non c’era articolo che non parlasse della radioattività. Neanche questa volta ebbi seccature.

Che non fosse letto però non era vero; leggere, leggevano, ma ormai per queste cose era nata una specie d’assuefazione, e anche se c’era scritto che la fine del genere umano era vicina, nessuno ci badava. Anche i settimanali d’attualità portavano notizie da far rabbrividire, ma la gente sembrava prestar fede solo alle fotografie a colori di belle ragazze sorridenti in copertina. Uno di questi settimanali uscì con in copertina la foto di Claudia in costume da bagno che faceva un’evoluzione sugli sci d’acqua. La appesi con quattro puntine a una parete della mia stanza d’affitto. Ogni mattino e ogni pomeriggio continuavo a recarmi nel quartiere dai tranquilli viali dov’era il mio ufficio, e alle volte ricordavo il giorno d’autunno in cui c’ero venuto la prima volta, quando in ogni cosa che vedevo cercavo un segno, e mi pareva che nulla fosse abbastanza grigio e squallido per come mi sentivo. Anche adesso il mio sguardo cercava solo dei segni; altro non ero mai stato capace di vedere. Segni di cosa? segni che si rimandavano l’un l’altro all’infinito. Così mi capitava alle volte in quel quartiere d’incontrare un carro tirato da un mulo: un carretto a due ruote, che andava per un controviale, carico di sacchi. Oppure lo incontravo fermo a un portone, il muletto alle stanghe che chinava il capo, e in cima al mucchio di sacchi bianchi una bambina. Poi m’accorsi che non c’era solo un carro così, che girava da quelle parti, ma erano in diversi. Non saprei dire quando cominciai ad accorgermene; uno vede tante cose e non ci bada; magari queste cose che vede hanno un effetto su di lui ma lui non se ne accorge; poi comincia una volta a collegare una cosa con l’altra e allora improvvisamente tutto acquista significato. La vista di questi carri, senza che io vi ponessi mente, aveva su di me un effetto rasserenante, perché un incontro insolito, come un carro dall’aria campagnola in mezzo a una città tutta automobili, basta a far ricordare che il mondo non è mai tutto a una maniera. Avevo dunque cominciato a farci attenzione: una bambina con le trecce stava in cima alla montagna bianca dei sacchi leggendo un giornalino, poi dal portone usciva un uomo grosso con un paio di sacchi e metteva anche quelli sul carro, girava la manovella del freno, diceva: – Jii… – al mulo, e andavano, la bambina sempre in cima che continuava a leggere. E si fermavano a un altro portone; l’uomo scaricava alcuni sacchi dal carro e li portava dentro. Più in là, nel controviale opposto andava un altro carro, e a cassetta c’era un vecchietto, e una donna andava su e giù per le scale dei palazzi con grossi fagotti in testa. Io cominciai a notare che i giorni in cui vedevo i carri ero più allegro e fiducioso, e queste giornate capitavano sempre di lunedì: così appresi che è il lunedì la giornata in cui i lavandai percorrono coi loro carri la città e riportano i fagotti con la roba pulita e portano via la roba sporca.
Adesso che lo sapevo, la vista dei carri dei lavandai non mi sfuggiva più: bastava che al mattino andando ne vedessi uno, e mi dicevo: «Già, è lunedì!» e subito dopo ne appariva un altro che procedeva per un altro corso, seguito da un canino che abbaiava, e un altro ancora s’allontanava laggiù, ne vedevo solo il carico da dietro, coi sacchi a righe bianche e gialle. Tornando dall’ufficio presi il tram, per altre vie più affollate e assordanti, e anche lì ecco a un incrocio il traffico si doveva fermare perché lenta vi girava la ruota dai lunghi raggi d’un carretto di lavandaio. Buttavo l’occhio in una via secondaria e, fermo a fianco del marciapiede, vedevo il mulo coi fagotti di biancheria che un uomo dal cappello di paglia stava scaricando. Feci quel giorno un giro molto più lungo del solito per rincasare, sempre continuando a incontrare i lavandai. Mi rendevo conto che per la città quella era una specie di festa, perché tutti erano felici di dare via i panni segnati dal fumo e di riavere il candore del lino addosso, fosse pure per poco. Il lunedì dopo volli seguire i lavandai per vedere dove andavano al ritorno, fatte le consegne e ritirato il nuovo lavoro. Camminavo un po’ a caso, perché un po’seguivo un carro, un po’l’altro, e a una cert’ora capii che c’era una direzione che finivano per prendere tutti, certe vie dove finivano per passare, e quando si trovavano a incontrarsi o a incolonnarsi uno dietro all’altro, s’apostrofavano con calmi saluti e scherzi. Così continuai a seguirli e a perderli per un lungo percorso finché non fui stanco, ma prima di lasciarli avevo appreso che c’era un paese dei lavandai: erano tutti del sobborgo di Barca Bertulla. Un giorno, di pomeriggio, ci andai. Passai un ponte su un fiume, era mezzo campagna, le strade camionali erano ancora fiancheggiate da una striscia di case ma subito dietro c’era il verde. Le lavanderie non si vedevano. Delle osterie aprivano pergole ombrose, sul fianco di canali interrotti da chiuse. M’inoltrai cacciando gli occhi per ogni cancello d’aia e ogni sentiero. Ero uscito a poco a poco dall’abitato, e le file dei pioppi si facevano a ridosso della strada, segnando le rive dei frequenti canali. E là in fondo, oltre i pioppi, vidi un prato veleggiante di bianco: roba stesa. Presi per un sentiero. Larghi prati erano attraversati da fili ad altezza d’uomo e a questi fili erano appesi ad asciugare uno dopo l’altro i panni di tutta la città, ancora molli di bucato e informi, tutti uguali nelle grinze che la stoffa faceva al sole, e per ogni prato intorno si ripeteva questo biancheggiare delle file lunghissime di panni. (Altri prati erano spogli, ma anch’essi attraversati dai fili paralleli, come vigneti senza viti.) Io giravo tra i campi biancheggianti di roba stesa e mi voltai di scatto a uno scoppio di risa. Sulla riva d’un canale, sopra una chiusa, c’era la sponda d’un lavatoio e di là con le braccia rimboccate, le vesti di tutti i colori, s’affacciarono alte sopra di me le facce rosse delle lavandaie e ridevano e ciarlavano, le giovani coi petti sotto le bluse che andavano su e giù, le vecchie grasse coi fazzoletti in capo, e muovevano avanti e indietro le braccia rotonde nella saponata e strizzavano con moto angoloso dei gomiti i panni attorcigliati. In mezzo a loro gli uomini coi cappelli di paglia scaricavano le ceste in mucchi separati, o ci davano dentro anche loro col quadrato sapone di Marsiglia, o battevano con le palette di legno. Io ormai avevo visto, e non avevo niente da dire o da ficcare il naso. Tornai indietro. Sul ciglio dello stradone cresceva un po’ d’erba e io stavo attento a camminare lì per non impolverarmi le scarpe e per tenermi un po’allo scarto dai camion che passavano. Tra i prati e le siepi e i pioppi continuavo a seguire con lo sguardo i fontanili, le scritte su certi bassi edifici Lavanderia a vapore, Cooperativa lavandai Barca Bertulla, i campi dove le donne come vendemmiassero passavano coi cesti a staccare la biancheria asciutta dai fili, e la campagna nel sole dava fuori il suo verde tra quel bianco, e l’acqua correva via gonfia di bolle azzurrine. Non era molto, ma a me che non cercavo altro che immagini da tenere negli occhi, forse bastava.