Sono passati tredici anni

Sono passati tredici anni, ma l’amarezza e lo sgomento non sono cambiati. Sono ancora intensi come quel 20 maggio del 1999, quando un commando di terroristi uccise Massimo D’Antona. Oggi prendo in prestito le parole di Bruno Caruso per ricordarlo, per dire che ci manca e che – come allora – considero uno dei più grandi privilegi che la vita mi ha riservato averlo potuto incrociare.

“Massimo D’Antona era un intellettuale prestato alla politica, ma rimaneva un intellettuale, direi, in senso nobilmente gramsciano; non ha mai pensato il suo impegno a fianco del sindacato, delle istituzioni come una pratica a sé, separata dalla elaborazione intellettuale e dai suoi profondi convincimenti morali.

Di fronte ai miei dubbi su un suo eccessivo, recente coinvolgimento nella prassi, nell’operare in concreto, con un disarmante sorriso mi rispondeva che avevamo un’occasione storica, che non potevamo lasciarci sfuggire: di misurare cioè nel concreto incedere istituzionale, ed in una irripetibile stagione storica, la bontà e la plausibilità delle ipotesi teoriche che avevamo mille volte discusso insieme; ed aveva ragione.

Oltretutto riusciva in una cosa in cui pochi intellettuali prestati alla politica riescono a fare. Il suo rapporto con la politica ed il potere era lieve, in senso calviniano: non era mai succube, era granitico nella sua coerenza e nella sua autonomia, era flessibile ma resistente nei principi come un giunco, e questo atteggiamento, questa grande dignità, gli consentiva di non dovere chiedere nulla a chicchessia, di mantenere un grande distacco: Massimo veniva chiamato; non si è mai proposto, e non si è proposto neppure in quelle occasioni in cui era naturale che venisse chiamato, perché spettava a lui, perché era il migliore, e ciò, invece, non avveniva.” *

 

* da “In memoria di Massimo D’Antona”

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