20 maggio, Massimo D’Antona

massimo-dantonaOggi alle 12 in via Salaria parteciperò alla commemorazione di Massimo D’Antona che si terrà nel luogo dell’agguato terroristico del 20 maggio 1999. Massimo D’Antona era un intellettuale fine come pochi, rigoroso dal punto di vista morale e scientifico, visionario per la sua capacità di guardare oltre. Un uomo che voleva modernizzare gli ordinamenti che regolano il lavoro pubblico e quello privato. Che voleva individuare un senso ed una funzione nuovi al sindacato e alla contrattazione collettiva.
“Massimo D’Antona era un intellettuale prestato alla politica, ma rimaneva un intellettuale” ha ricordato Bruno Caruso alcuni anni fa. Era un intellettuale che avrebbe sicuramente cambiato in meglio il diritto del lavoro e contribuito ad elaborare nuove proposte per l’occupazione. In un futuro negatogli dai brigatisti, Massimo D’Antona sarebbe stato guida di quella classe dirigente competente, seria e coerente di cui il nostro Paese aveva ed ha gran bisogno.
Ho avuto la fortuna di incontrarlo, il privilegio di incrociarlo durante il mio percorso di studi post-universitari. E’ stato un onore. Diverse generazioni di studenti e di giuslavoristi hanno attinto alla sua opera e tentato di emularne il metodo.
Ricordo la semplicità e linearità con cui esponeva i concetti, anche i più complessi, e la insopprimibile attrazione per il caso concreto. Il diritto del lavoro, come strumento volto ad offrire tutele «al lavoratore concreto, in carne ed ossa, al suo progetto di lavoro e di vita, più che al lavoro attualmente massificato di cui per lo più ancora oggi ci parlano leggi e contratti».
Per questo, oggi, voglio ricordarlo con un saggio pubblicato nel 1996 su «Rivista critica di Diritto del Lavoro», scritto la cui attualità, a quasi vent’anni dalla pubblicazione, è stupefacente.

Massimo D’Antona La metamorfosi della subordinazione, in Riv. critica dir. lav. Quaderni, A 25 anni dallo statuto: quale futuro per il diritto del lavoro?, a cura di F. AMATO – G. BRONZINI, 1996, 23-29.

Il travaglio attuale del concetto-chiave del diritto del lavoro, la subordinazione, è il travaglio di un modello culturale che ha avuto e continua ad avere centrale importanza nelle società europee. Per cogliere la profondità del travaglio, bisognerebbe guardare all’evoluzione delle istituzioni giuridiche che organizzano il mondo della produzione da un punto di vista antropologico, al modo di Karl Polanyi, considerandole come parte della cultura e come fattore costitutivo, e non mero prodotto, dell’esperienza umana di un’epoca. I cambiamenti del mondo della produzione sono così radicali da scuotere, soprattutto nella vecchia Europa, le basi di un ordine sociale che, anche grazie alle istituzioni giuridiche, trova tuttora nel lavoro salariato il suo riferimento essenziale, dal quale derivano senso, cogenza e legittimazione. Vorrei dimostrare che sul concetto-chiave del diritto del lavoro, la subordinazione, si riflette la difficoltà, che non è tecnico-giuridica ma culturale, di correlare razionalmente il complesso di istituzioni a orientamento protettivo che chiamiamo diritto del lavoro, con il mondo della produzione. Sostengo insomma che il disagio del diritto del lavoro nasce da un progressivo slittamento tra le forme reali che nelle società occidentali sta assumendo il rapporto tra gli uomini e il mondo della produzione, e le istituzioni giuridiche che sono sorte e si sono sviluppate nella fase storica in cui dominava il modello della produzione industriale. Nelle società europee la produttività cresce, e con essa la ricchezza e soprattutto la quantità di beni a disposizione, ma il lavoro se ne va. Non si tratta di un evento congiunturale, legato al ciclo economico, e non è neppure un fenomeno paragonabile, per profondità ed effetti, alle fasi di alta disoccupazione che questo secolo ha già conosciuto. La crescita senza occupazione non spinge verso il sottosviluppo e la povertà di massa. La posta in gioco non è la povertà, ma la speranza. Lo spettro che si aggira sull’Europa è la crescente consapevolezza che il mondo della produzione non ha più bisogno di quella dedizione totale di massa al lavoro (per circa un terzo della giornata, tutti i giorni, salvi riposi, feste e ferie, dalla scuola alla pensione) che è stato il gravoso destino ma anche il pegno della speranza – di una vita sicura e di un futuro migliore per i propri figli – per tre o quattro generazioni di europei, inclusa la mia. Tutto questo sollecita una revisione profonda dello statuto giuridico del lavoro. Del lavoro senza aggettivi, considerato al di là delle partizioni ricevute, tra lavoro autonomo e subordinato, o tra lavoro prestato per soddisfare un interesse economico e lavoro prestato al di fuori della sfera della produzione, per soddisfare interessi non economici, propri o altrui, come lavoro formativo, socialmente utile, volontario. E la revisione dello statuto giuridico del lavoro è un progetto a un tempo culturale e politico. Richiede che sia rinegoziato il contratto sociale che sta alla base della società salariale edificata sul modello fordista della produzione e del consumo. Se la dedizione totale al lavoro non fosse più l’obbligazione e il pegno della cittadinanza sociale, occorrerà chiarire su quali obbligazioni e pegni si deve fondare la cittadinanza sociale futura (sempre che non si voglia sciogliere il patto di solidarietà sociale tra cittadini, e sancire il dominio di mercato in tutti gli ambiti della vita). E richiede che l’ordine sociale sia riprogettato in funzione del dato inconfutabile che, se la produzione risparmia lavoro, la società continua ad averne un grande bisogno, nella gamma crescente di servizi alle persone e in quelli a favore delle conservazioni e della riproduzione dell’ambiente naturale e culturale in cui viviamo, e nelle maggiori quantità di tempo liberato dal lavoro totale come destino.
Mi sono spinto così fin troppo lontano senza aver fissato, sul terreno propriamente giuridico, alcune premesse essenziali, movendo, com’è necessario, dallo stato dell’arte della discussione sulla subordinazione, discussione sulla quale i cambiamenti epocali ai quali ho accennato hanno avuto risonanza, ma indiretta e mediata. La subordinazione, come concetto chiave del diritto del lavoro, si può considerare da due distinti profili, quello dell’inclusione e quello dei valori. Quello dell’inclusione è il profilo più presente al dibattito giuridico e giurisprudenziale. Quando un rapporto di lavoro deve considerarsi subordinato? Quello dei valori è spesso inespresso, ma non meno importante. Perché tra le diverse forme di lavoro, il lavoro subordinato fruisce di una protezione qualificata, che impone doveri di solidarietà al datore di lavoro e allo Stato? Sotto il profilo dell’inclusione, la nozione giuridica di subordinazione, quale si tramanda nelle massime della Cassazione, mantiene sostanzialmente intatta la sua capacità selettiva a condizione che, e dirò subito che il punto non è incontroverso, sia considerata una nozione indisponibile e nello stesso tempo aperta, ossia capace di «apprendere» dall’evoluzione della realtà. Il punto non è incontroverso, ed è anche il terreno sul quale, per vero senza grande chiarezza, la dottrina giuslavorista si è schierata in campi contrapposti. La scarsa chiarezza dipende innanzitutto dall’elevato tecnicismo dei termini della contrapposizione: la qualificazione del rapporto di lavoro procede per sussunzione o per tipizzazione? In altri termini, muove sillogisticamente da un concetto dogmatizzato di subordinazione o precede tipologicamente attraverso un giudizio di approssimazione a un modello o tipo ricavato dalle definizioni legali lette alla luce dei dati di normalità sociale? Sotto l’apparente tecnicismo, giacciono due questioni molto concrete. La prima è la possibilità, che secondo alcuni il metodo tipologico offrirebbe, di modulare gli effetti protettivi in funzione della maggiore o minore approssimazione del rapporto di lavoro da qualificare al tipo astratto del lavoro subordinato. (…)
Una nozione indisponibile e allo stesso tempo aperta della subordinazione va difesa con tutte le risorse teoriche in questa particolare fase storica. Più della definizione astratta, è decisivo che il giudizio di inclusione/esclusione sia aperto e capace di ordinare tipologicamente le nuove forme di lavoro produttivo in funzione dei valori di dignità, sicurezza, solidarietà che stanno alla base della tutela costituzionale del lavoro (subordinato). E che pertanto sia preservata una nozione oggettiva ed effettuale di subordinazione, escludendo rigorosamente che di essa le parti possano disporre all’atto della dichiarazione negoziale (senza escludere con questo, come subito dirò, che la volontà delle parti in ordine alnomen e al regolamento applicabile possa assumere un forte rilievo indiziario in certi casi).
Questo è quanto l’ordinamento consente oggi all’interprete. Ma non basta. Quando la Corte Costituzionale eleva la nozione «effettuale» della subordinazione a nozione presupposta dal sistema delle garanzie costituzionali del lavoro, taglia la strada alle velleità di fuga dal diritto del lavoro e in particolare a quella fuga nel mercato che si esprime nel ritorno al contratto e nella rivendicazione di un potere di disposizione del tipo restituito alle parti. Ma evita anche di affrontare i problemi di ridefinizione dello statuto giuridico del lavoro, i quali sono legati precisamente alla perdita di oggettività della figura socialtipica del lavoratore – che è sempre meno descrivibile nei termini tradizionali di chi è totalmente dedito a un lavoro eterodiretto, svolto in un’organizzazione gerarchica e compatta – all’emersione di una vasta area di lavoro che, per essere «oggettivamente» diverso dal lavoro subordinato, non merita davvero di essere considerato semplicemente non-lavoro. Proverò a riassumere in alcune proposizioni quelli che a me sembrano i temi essenziali di una revisione dello statuto giuridico del lavoro.
Il primo è il superamento della dicotomia tra lavoro subordinato e lavoro autonomo o associato. Superamento che non comporta la diluizione delle differenze, che restano profonde, da un lato e dall’altro dello steccato, ma la fissazione di una base comune di istituti e garanzie. Tralasciando per un momento gli aspetti di contenuto, occorre almeno chiarire su quali presupposti si può individuare un’area di continenza tra lavoro subordinato, lavoro autonomo, lavoro associato, ferme restando le differenze. Il punto di contatto è la strumentalità del lavoro (personale) rispetto all’attività economica altrui, il suo porsi, indipendentemente dallo schema contrattuale utilizzato, come il fattore normale e costante di quell’attività. È possibile riconoscere una base comune di regole e diritti alla famiglia dei contratti di lavoro, e mantenere nello stesso tempo ferma la nozione inderogabile e aperta della subordinazione? La risposta è sì, se si compie la rivoluzione (culturale) di considerare il lavoro subordinato come specie del genere lavoro tout court; quest’ultimo inteso a sua volta come il riferimento comune delle diverse forme di integrazione su base contrattuale del lavoro nell’attività altrui. La scoperta di una base comune a un’intera famiglia di contratti di lavoro non ha un valore normativo, ne ha uno strettamente metodologico. È ciò che consente alla famiglia di riconoscersi non in una classificazione estrinseca, ma in un elemento ricavabile dall’atto di autonomia contrattuale dal quale tutti i rapporti considerati prendono vita. L’elemento comune – dando per scontato il carattere personale della prestazione lavorativa e l’onerosità – è come ho detto la funzione di integrazione contrattuale del lavoro nell’attività economica altrui (il fatto della prestazione inserita come fattore normale e costante nel ciclo della produzione o nell’organizzazione del servizio del datore di lavoro, il che nei contratti associativi richiede anche la mancanza di ogni effettivo potere di controllo sulla gestione). (…)
Non vi possono essere conclusioni, ma qualche notazione finale. Sempre più chiaramente dietro la crisi del concetto-chiave del diritto del lavoro vi è l’eclissi di un modello culturale dal quale tuttavia continuiamo a trarre orientamenti e convinzioni. Il modello antropologico del diritto del lavoro italiano è in piccola parte quello del Cipputi industriale, occupato in una grande fabbrica del Nord, e in parte assai più consistente quello del ceto medio operaio-impiegatizio-privato-pubblico, che ha ingrossato l’elettorato interclassista della DC e del PCI. Con la sua tipica ambiguità, il diritto del lavoro ha catturato bisogni e aspirazioni di un’umanità composita, che ha popolato il mondo della produzione e quello del consumo nei cinquant’anni di sviluppo e di pace di questo secondo dopoguerra, ma che tende a perdere peso nell’uno, anche se lo mantiene fermamente nell’altro. Oggi, val la pena di ripeterlo, la questione delle questioni è che – certo non ovunque allo stesso modo, ma nella nostra vecchia Europa più che altrove – la produttività cresce mentre il lavoro se ne va. La questione delle questioni è che il diritto del lavoro così come è non solo cattura un modello antropologico di lavoratore che perde centralità, ma, in quanto le istituzioni giuridiche sono istitutive di un modello di società, rischia di rivelarsi elemento frenante rispetto all’esigenza di rifondare, in primo luogo nella cultura, la funzione del lavoro (senza aggettivi) in una società che conosce la crescita senza occupazione.
Ormai il nucleo forte del diritto del lavoro protegge i pochi, ed esclude i molti. E come se non bastasse i pochi sono le generazioni mature e i gruppi già forti, mentre i molti sono le generazioni giovani, i lavoratori marginali, gli immigrati, i deboli. Ha difficoltà a dare senso e dignità alla vita chi non è occupato nelle forme esclusive che il modello industriale ha tramandato (ed è questa la condizione che si avvia a essere prevalente). Canalizza enormi trasferimenti verso il mercato del lavoro, ma conosce solo i bisogni del Cipputi industriale che, se si ammala o si infortuna o è disoccupato, in tanto è considerato dal sistema della protezione, in quanto abbia già un lavoro stabile. E se dovessimo concludere che il problema antropologico fondamentale del nostro tempo è dare un senso (e di forgiare istituzioni appropriate) al non-lavoro, che non è l’ozio, ma il lavoro al di fuori del mondo della produzione? E se fossero le leggi sul volontariato, sui lavori socialmente utili, sulle organizzazioni non profit i frammenti di un diritto del lavoro futuro, così come le «leggi grezze e fumose, coperte di scorie», per riprendere una immagine di Carnelutti, furono l’embrione del diritto del lavoro industriale?

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