Francesco Merlo, su La Repubblica di oggi.
Peggio di una sconfitta elettorale, peggio di un fiasco a teatro. La rabbia di Genova, la città che meglio conosce Grillo, non è cieca come l’acqua che infanga.
Nella prima rivolta popolare contro di lui, nel primo vaffa al vaffa, la rabbia ha infatti individuato e travolto il ghigno comico dell’antipolitica: «Come gli altri», «Venite qui solo a parlare ». E mai Grillo era apparso così poco teatrante, così fragile e vero nel suo smarrimento come quando, protetto da una cintura di braccia robuste come tronchi d’albero, ha inforcato il motorino. In una città incollerita e impraticabile è stato come scappare in ambulanza.
Il comico del malumore è stato smascherato come l’ultima impostura della politica. «Noi siamo dalla vostra parte», ripeteva con il disagio del leader tradito dalla folla nella quale era andato a “bagnarsi” per quel bisogno di consenso che spinse Berlusconi tra i terremotati dell’Aquila, travestì da spazzaneve il sindaco di Roma Alemanno, e in Sardegna costrinse i ministri Passera e Barca a scappare in elicottero dai minatori del Sulcis che erano andati ad abbracciare.
Per Grillo è peggio, perché non è governo. È anzi l’opposizione antisistema. Eppure, prima di essere contestato, andava in giro — bisogna ricordare queste immagini — carezzando sulle guance tutti quelli che incontrava, come un politicante che sogna di riempire il grande vuoto d’autorità con il rituale della propaganda, della seduzione, del patetico consolatorio. Mai si erano viste le coccole del populista arrabbiato.
Certo, più fragile e sottile dell’argine di un ruscello è in politica la differenza tra vanità e testimonianza, tra passerella e solidarietà: «Sei qui per farti la fotina», gli hanno gridato i ragazzi che forse l’hanno votato, certamente lo avevano ascoltato nel dicembre del 2013 al terzo V-day, il più eversivo. «Siamo qui a dare l’estrema unzione: impeachment per Giorgio Napolitano!», gridò con le braccia aperte come a volare sulla folla di piazza della Vittoria, oggi devastata dai detriti, mentre alle sue spalle faceva capolino Casaleggio. «Siamo populisti arrabbiati», era appunto lo slogan.
Nessuno avrebbe immaginato che, meno di due anni dopo, il populista arrabbiato sarebbe stato inseguito dalla rabbia del suo popolo che si aspettava braccia e pale, il grande coinvolgimento della Rete, un po’ di soldi, l’uso di Genova come scuola di formazione di una classe dirigente, perché la politica alla fine è organizzazione e mobilitazione. E nella storia d’Italia tutte le emergenze sono state affrontate da eserciti di ragazzi che provenivano dai più vari forni ideologici delle opposizioni. Come Firenze e il Belice furono i laboratori del 68 così la Genova di Grillo avrebbe potuto essere la prova del nove dell’Italia a cinque stelle, e proprio perché la polemica di strada non ha risparmiato nessun esponente dello Stato, neppure gli innocenti inadeguati come forse è il sindaco Doria. Inevitabili e quasi naturali sono le contestazioni del governatore Burlando, del ministro Pinotti, della Protezione civile, dei vigili del fuoco, della polizia. Solo per Grillo è un passaggio d’epoca, il momento fatale.
E diventa incidente storico anche l’aver scelto il Circo Massimo per la festa del Movimento proprio mentre Genova affogava. Sfortuna? Qualcuno ha detto che la sfortuna non cambia la politica, ma la smaschera: «Troppo tardi», gli gridavano. Solo ieri a Genova la festa di Roma ha preso il suo definitivo senso politico, quando appunto i volontari sono usciti dalla retorica degli angeli del fango e sono entrati nella metafora degli angeli della storia. Nei video, su Internet, in tv, l’Italia li ha visti smettere di lavorare e correre spontaneamente a contestare Beppe Grillo, giovani facce anonime di strada e di web, «gli occhi spalancati, la bocca aperta …» come nel quadro di Paul Klee che ispirò appunto la teoria dell’Angelus Novus che «dà il senso alla tempesta». E sarà pure una vecchia pulsione semplificatoria e populista — grillina verrebbe da dire — quella della «capitale corrotta / nazione infetta», ma Roma, quando altrove infuria la sventura, incarna sempre la politica della dissipazione. «Arrivi qui dopo cinque giorni a fare passerella », gli gridavano. Come ha potuto il leader della rivoluzione, in quei cinque giorni di dibattito, dimenticare che «dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur»? E com’è possibile che Grillo abbia urlato «fate spalare anche Renzi» mostrando così la sua ossessione di Palazzo, non solidarietà a Genova, ma guerra al nemico politico romano, del quale dal blog ha poi chiesto le dimissioni?
È invece ovvio che, dopo anni di sparate, iperboli, insulti fegatosi e linguaggio smodato, Grillo non sia più in grado di capire che la merda in metafora è essenza di bosco rispetto al fango di acqua, terra, spazzatura e rottami. E che, anzi, quella finta merda oltraggia questo fango vero. Difatti si sono offesi quando Grillo ha gridato: «I parlamentari a 5 stelle spazzano merda in Parlamento, figurati se gli fa paura un po’ di fango». E i ragazzi: «Vieni qui, ti metti un po’ di fango e ti fai fare le foto…». Ma Grillo: «Figurati se ho problemi a spalare», ha gridato scappando su una moto che i mille vaffanculo, il referendum per uscire dall’euro, l’esercito per fermare Renzi, «la peste rossa» hanno reso più odiosa di un’auto blu.
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